Questa notte ho rivissuto quel lunghissimo viaggio notturno che fu il nostro trasferimento a Roma.

L'ho ripercorso minuto dopo minuto, chilometro dopo chilometro, in uno strano, impossibile, ma - nel sogno - naturalissimo sdoppiamento di persona.

Invisibile agli altri, nella mia attuale dimensione di persona matura, io sono presente allo svolgersi di quella vicenda che si ripete dopo tanto tempo sin nei minimi particolari, ma, contemporaneamente è qui, dinnanzi a me, la ragazzina che ero io allora, undicenne appena, coinvolta in una tragedia che non poteva comprendere, una tragedia che lei viveva, anzi, come un'affascinante avventura.

Seduta come sono in fondo allo scompartimento a sinistra della porta, la vedo affacciata al finestrino, tendere l'orecchio per capire cosa si dicano quelle tre persone che parlottano tra loro sotto la pensilina, avvolte nel buio di quella gelida sera del diciotto febbraio millenovecentotrentasei, che i fiochi lumi sotto la tettoia non riescono a diradare.

Rari passeggeri vanno a prendere i loro posti, accompagnati dai fischi delle locomotive, mentre i vetri illuminati degli uffici ferroviari e del distaccamento di polizia sembrano giochi di ombre cinesi.

Sento che è gonfia di sonno _e curiosità; vorrebbe sapere che cosa dicono il babbo e la mamma che parlottano con il caro e vecchio amico al quale lei vuole bene come ad un vero nonno.

Io vorrei raccontarglieli, quegli ultimi discorsi, quelle parole stanche e disperate alimentate da un impercettibile tono di speranza, ma non riesco a parlare: in quel treno io non esisto, sono solo quello che lei sarà e, mentre io ricordo in lei la mia vita, lei ignora completamente me, che sono il suo futuro.

Il distacco dal vecchio amico è l'unica spina nel suo cuore. Non deve pensarci altrimenti le si appanna la contentezza del prossimo arrivo a Roma. Nel suo candore lei accomuna il dispiacere per il forzato abbandono dell'anziano scapolone affettuoso, primo e sincero amico della sua vita, con quello del distacco amarissimo dal suo Tony, il vecchio gattone tigrato più anziano di lei, ma vispo e giocherellone, che aspettava in finestra i suoi ritorni da scuola, che solo da lei accettava i bocconcini (ma di nascosto, però) e che dormiva acciambellato sui suoi piedi malgrado ciò fosse stato loro severamente proibito.

Come avrebbe voluto che fossero partiti con lei! Ma ogni volta che chiedeva: "Perché non vieni anche tu con noi?" uno rispondeva sempre con il solito miagolio, e l'altro se ne usciva con una risatina soffocata, quella che i grandi adoperano quando non sanno dare una risposta.

Al fischio del capotreno i tre si salutano. I miei salgono ed al loro ingresso nello scompartimento il treno lentamente si muove. Si affacciano, un ultimo cenno della mano e si sistemano ai lati del finestrino, mentre lei seguita ad agitare le manine. Io seguito ancora a vedere quel Borsalino, sotto la tettoia, che continua a salutare quelle due farfalline bianche che diventano sempre più piccole finché non si distinguono più.

Adesso lei si volta, tutto quel buio non le piace, la respinge. Lei la sua città 1'ha già lasciata dietro le spalle; passeranno decenni prima che le rifiorisca in cuore la nostalgia per il suo mare, i monti, il suo dialetto, il panorama. Per ora e per molto tempo ancora attenderà ansiosamente il domani.

Non è abituata a fare tardi, e già le sue lunghe ciglia nere si fanno pesanti. Forse è meglio cercare di dormire. Si allunga comodamente sul sedile di quella insperata terza imbottita (una rarità per quei tempi) a fianco della madre, col capo appoggiato sulla sua sciarpa arrotolata a guisa di cuscino. Un morbido scialle le viene appoggiato addosso e una piacevole sensazione di benessere la trasporta quasi subito in braccio a Morfeo.

La mano bianca ed affusolata della mamma le carezza dolcemente la fronte per scansarne una ciocca di capelli.

Quel gesto affettuoso scatena nel mio cuore una tempesta di commozione. L'ho sempre ignorato, perché dormivo. Vedermelo fare da lei, adesso, proprio perché ricordo benissimo di averla perduta da tanto tempo, mi dà una felicità così acuta da desiderare di piangere.

Mi soffermo a guardarla attentamente, è seduta nell'angolo diagonalmente opposto al mio, la luce, sebbene fioca, le illumina il viso con un riflesso rosato che mette ancora più in risalto lo splendore dei grandi occhi neri, mentre lascia un poco in penombra l'ala di corvo dei suoi capelli, racchiusi nel morbido chignon. Come è giovane, mio dio, tanto più giovane di me adesso e non sa che il destino non le permetterà la mia serena maturità popolata di nuore, generi, nipotini, brevi vacanze e piccoli viaggi. Ed è così bella!

Quasi mi sento colpevole nei suoi confronti: colpevole di aver avuto un destino diverso dal suo, colpevole anche di non aver avvertito la sua mano leggera sfiorarmi la fronte durante il sonno. Ma lei era donna di pochi slanci, pudica dei suoi sentimenti che non esternava facilmente, estremamente dignitosa del proprio stato, maggiormente nelle ristrettezze in cui eravamo precipitati che nella elevatezza di prima. Sapeva celare benissimo il suo temperamento, sensibile ed emotivo sotto uni aspetto che andava dal disinvolto all'autoritario a seconda che lo richiedessero le circostanze.

Mai, in tutti gli anni che sono seguiti, abbiamo parlato più di quella notte. Era la diaspora della nostra famiglia, l'ultimo atto di un dramma che si stava rappresentando, un vero e proprio naufragio dal quale si erano salvati solo pochissimi soldi, un baule di effetti personali che ci seguiva nel bagagliaio e due valige che portavamo con noi. Così stavamo viaggiando nottetempo verso un futuro pieno di incognite in una città sconosciuta.

La contemplo con struggente tenerezza. Lei guarda fisso incontro a sé, ed è, il suo, un discorso interminabile che riversa nel mio cuore tutta l'angoscia del suo che sarebbe rimasto segnato per sempre in quella dolorosa esperienza durata, per lei, ben più che una notte di viaggio.

Solo a me, bambina, sarà concesso rimuoverlo dalla mente, seppellirlo lontano; forse perché lo avevo vissuto con un altro animo, senza conoscere i terribili retroscena che lo avevano provocato.

In questo momento mio padre si alza.

Fino ad ora è stato seduto incontro a mia madre, leggermente girato sul fianco destro per poter allungare le lunghe gambe senza darle fastidio. Gli occhi chiusi per pensare meglio. Ogni tanto guarda dormire il suo cucciolo, del quale è tanto orgoglioso, che porta persino il suo nome, al diminutivo femminile per tradizione familiare, e la sua espressione affettuosa mi ritorna improvvisamente consueta, anche se i lunghi anni da che mi ha lasciato mi hanno disabituato alle sue manifestazioni di affetto.

Ora si siede sullo stesso sedile delle sue donne. Vuole stare loro vicino. Ricopre con un lembo dello scialle le caviglie della figlia ed ora sono tutti e tre vicini che si toccano l'un l'altro: tre povere creature in fuga da un ambiente ostile che non tollera l'onestà spinta alle estreme conseguenze, protese verso un futuro migliore da costruire con le nude mani, ad un'età in cui, semmai, si cominciano a raccogliere i frutti di quanto si è seminato sino ad allora.

Nello scompartimento il silenzio, ora, è profondo, così profondo che il rotolio delle ruote sobbalzanti sulle traversine sembra quasi farne parte, anche il fischio lacerante della locomotiva.

Il treno corre nella notte. Io posso vedere - quasi le pareti del vagone siano di vetro - il cielo terso della gelida notte invernale puntinato di stelle e rischiarato da una splendida luna che sembra di gesso ed i paesini che si susseguono quasi piccoli presepi illuminati da tante candeline.

Ora la strada ferrata si snoda in vista della costa. Si vedono sul mare le luci dei fanali delle barche da pesca. Distinguo le piccole insenature, le scogliere a picco, i grandi porti delle città costiere con la loro selva di bighi, di ciminiere, di fari e le masse scure degli alti muri dei magazzini.

Mano a mano che il convoglio si avvicina a quella che sarà la nostra meta io ripercorre il tempo che occorre per colmare la distanza che esiste tra me ed i miei compagni di viaggio.

Saranno anni di duro lavoro per i miei, di rinunce e sacrifici per tutti.

Non sarà affatto difficile per mia madre trovare subito un lavoro: quello che conterà di più non sarà la sua grande esperienza ma il fatto di essere in possesso della tessera di iscrizione al partito fascista.

Che lo fossi io era una conseguenza naturale poiché ero stata iscritta alle scuole elementari, ma per lei la cosa aveva del mistero: non ho mai potuto sapere come abbia potuto accadere. Escludo che fosse il frutto di un suo entusiasmo giovanile. Non mi meraviglierei, dato che era una donna molto intelligente, che fosse ricorsa a questa precauzione quando i suoi timori per il futuro cominciarono a tramutarsi in realtà.

I primi tempi, comunque, il suo stipendio da solo dovrà sopperire a tutte le necessità della nostra famiglia. A quell'epoca gli orari di lavoro non erano davvero quelli di oggi, né i lavoratori erano tutelati come ai nostri giorni. Il primo impiego mamma lo troverà presso l'amministrazione di un grosso magazzino di cereali, nella zona dei Cessati Spiriti, allora estrema periferia, oggi appena decentrata. Lontanissima dalla nostra prima abitazione romana. Lei, poverina, dovrà uscire prestissimo al mattino, e con il trenino per i castelli romani, dopo più di un`ora di viaggio potrà giungere negli ampi locali terreni aperti a tutto il freddo e tutto il caldo che poteva esserci nella stagione.

La sua scrivania vicino all'entrata, per poter sorvegliare la merce che esce, il tavolo con la macchina da scrivere appoggiato alla parete e la luce della lampadina per poter scrivere anche con il sole di mezzogiorno.

Il padrone sarà un omone grosso e pletorico, poco più di un mercante di campagna, con i modi arroganti di chi, dal niente, è riuscito a fare un mucchio di soldi, con un tono di voce sempre superiore alla norma, ma con in fondo una grande soggezione per quella sua dipendente così decisamente diversa da quelle alle quali era stato abituato fino a quel momento. E tanto più lo pungerà la soggezione, tanto più alzerà la voce, per dimostrare che il padrone è lui e che quella differenza non lo tocca né punto né poco.

Mentre il treno continua a camminare io la vedo assorta, immobile alla fioca luce con gli occhi fissi nel vuoto, presaga che non sarebbero certo state né rose né fiori, anche se non immagina certo di passare dei momenti così. A volte gli occhi le si chiudono per la stanchezza e l'emozione. Il sonno la ghermisce d'improvviso per dieci minuti, un quarto d'ora al massimo.

Poi si risveglia di soprassalto, quasi non voglia perdere nemmeno un momento di quella sua meditazione dolorosa.

Mi tornano alla memoria certe confidenze sul figlio giovanetto di quel suo primo principale, tanto gentile ed educato per quanto il padre era rozzo e sgarbato. Un ragazzetto di circa sedici anni studiosissimo, con grande scorno del padre che avrebbe voluto farlo subito lavorare con lui, ma che la madre era riuscita a difendere in questo suo desiderio. Questa mamma, pensavo, doveva avere una segreta simpatia per la mia poiché quasi ogni mattina ad una certa ora invierà il figlio con un caffè che giungerà come una salvazione in mezzo a quel bailamme polveroso, pieno di voci concitate, di scalpitii di cavalli, di scoppi di motori. Ne approfitterà quel bravo figliolo per scambiare due parole con chi sapeva apprezzare i suoi progressi, ne riconosceva le soddisfazioni e lo incitava a perseverare. Il tutto sotto gli occhi bovini e risentiti delle due sorelle, due vere bestie da soma grassotte e bruttine che ben avranno preferito di seguire il padre nella sua attività, grette ed interessate come sono a sua immagine e somiglianza.

Sarà l'unica persona che le dispiacerà lasciare quando, dopo quasi due anni di estenuante lavoro riuscirà ad entrare in una società veramente importante:un'industria di livello internazionale. Una vera conquista: un ufficio con tante impiegate in grembiule nero, con la mensa, la cassa mutua, il dopolavoro e gli assegni familiari.

Sì, gli assegni familiari. Li avrebbe presi lei per me e papà perché lui, non essendo possessore di alcuna tessera, non avrebbe mai avuto, finche durassero quei tempi, la minima possibilità di sistemarsi definitivamente.

Vedendolo così silenzioso ed immobile, alto e dinoccolato com'è, sembra che quell'ango1o gli vada stretto. Le belle mani congiunte abbandonate sulla gamba accavallata. La ruga dritta e fonda sulla fronte leggermente rialzata guarda fisso avanti a sé. So che lui pensa all'ignoto e come affrontarlo, ma a testa alta. Che diamine. Dopotutto non è lui quel Giovanni Battista, Paolo, Alessandro, Giacinto, l'ultimo primogenito della sua nobile ed antica casata che tanto lustro aveva dato all'antica Repubblica marinara? Patriottica, fedelissima famiglia ma sdegnosa di ogni servilismo o compromesso che, finiti i bei tempi del'indipendenza, della potenza sul mare e dei liberi commerci non aveva voluto al pari di tante altre aderenti allo stesso Albergo (1) aggregarsi a nessuno dei potenti e sovrani di allora in cambio di titoli o fendi. Accontentandosi della propria solida posizione si era di poi considerata sempre al di fuori e al di sopra di ogni gioco od attività politica accettando solo se chiamata dai cittadini a svolgere quelle funzioni civiche che andavano a beneficio esclusivamente della comunità.

A questo punto è chiaro quanto, per lui, il discorso tessera o non tessera fosse fuori luogo. Non erano i meriti o i demeriti di un uomo, per quanto salito ai vertici del potere, per quanto padrone della situazione, a meritare da lui più considerazione di quanta in famiglia ne avessero goduta altri personaggi come quello, ma ben altrimenti considerati dalla storia. Come nessuno mai dei suoi antenati si era sentito obbligato verso chicchessia, così anche lui non aveva nemmeno preso in considerazione la ipotesi di doversi aggiungere a chi, per fede o per opportunità, si era aggregato a quella marea che stava sommergendo il paese.

Quanto non mi erano state chiare e conosciute le opinioni o le considerazioni che avevano spinto mia madre a prendere quella decisione, tanto mi erano chiare quelle di lui.

Quando, passata la catastrofe che avrà coinvolto e distrutto il nostro paese, vedrò la vita civile darsi quegli ordinamenti e quelle istituzioni che a me, nata in pieno fascismo, erano completamente sconosciute, vedrò nascere un mondo che corrisponderà a quelle che confusamente erano le interrogazioni che erano suscitate dalla condotta di mio padre.

Quei piccoli insignificanti avvenimenti che non trovavano allora spiegazione. Come quella volta che, incontrata una mia compagna di scuola ai giardini pubblici in compagnia del padre, questi nel corso delle poche parole di convenienza che poté scambiare con il mio se ne uscì con questa frase, la sola che ricordo di quella brevissima conversazione: "Ma le pare che si possa andare avanti così?".

Mio padre lo guardò severamente e con un secco movimento del capo gli gettò là tre parole: "A ciascuno il suo!" e, toltosi il cappello, salutò e mi condusse via.

Io mi meravigliai. Non era sua abitudine essere scortese con la gente, d'altra parte ero troppo giovane per capire la secca allusione, l'asciutto rimprovero. Né potrei giurare che anche il suo interlocutore assumesse in pieno il significato della frase.

Era quindi naturale, bambina com'ero - quando mi trovavo inquadrata in divisa da piccola italiana nell'atmosfera esaltata delle dimostrazioni organizzate e comandata nella scuola, nei saggi ginnici, nelle sfilate, inserita nelle masse urlanti ed esagitate che si ritrovavano a dare spettacolo nei punti prestabiliti - che io mi sentissi come un pesce fuor d'acqua. Quando vedevo le mie compagne di scuola o le mie amiche scandire slogan, applaudire, gridare, cercavo dentro di me qualcosa che mi spingesse ad imitarle, che mi desse una motivazione a farlo, ma non la trovavo: erano cose del tutto estranee all'atmosfera e all'educazione che respiravo in famiglia.

Rivedendolo adesso con altri occhi guardo quella ruga e quella fronte gettata all'indietro e mi accorgo che la spiegazione di quella frase è tutta lì. E' tutta lì la spiegazione del suo modo di affrontare la vita, la sua silenziosa dignità nell'affrontare le situazioni spiacevoli, prima fra tutte quella che sarà il non poter svolgere un lavoro di suo gradimento: cosa potrà rappresentargli quel peregrinare tutto il giorno ad offrire carte, spago e materiali da imballaggio? Oppure, peggio ancora, mettere a profitto la sua esperienza ed il suo gusto per arredare le case dei nuovi ricchi alla testa di una scalcinata squadra di "esclusi" come lui, chi pittore, chi muratore, chi elettricista, che un furbo ed avido negoziante sfrutterà per pochi soldi per accontentare una clientela che lo arricchirà?

Dovrà venire la guerra, l'estrema penuria di mano d'opera maschile. Saranno la bontà e la comprensione del nostro parroco a commuovere un pezzo grosso del comitato istituito per il controllo della produzione di materiale bellico che finalmente lo farà entrare, anche senza la famosa tessera, in una fabbrica di esplosivi.

Ecco, da quel momento gli assegni familiari andranno a lui, ma non per questo Giovanni Battista,

Paolo, Alessandro, Giacinto cesserà, dignitosamente ed in silenzio, di soffrire.

E' notte fonda. Quei tre corpi sul sedile dondolano ritmicamente, scandendo il passo delle ruote sulle traversine. Il vetro è tutto appannato. Si sente il lieve ritmo regolare del mio respiro di bambina addormentata. Mia madre, tolti i brevi momenti in cui cade preda del sonno, seguita a guardare disperata fuori dal finestrino. Lui senza spostarsi di un ette dalla sua posizione seguita a tenere gli occhi chiusi.

Adesso non mi sono più celati i suoi pudori, la sua dignità. Capisco quanto sia forte quel suo carattere che, a torto, si faceva giudicare fragile.

Quante infinite risorse nasconda, risorse che si riproducono anche quando si esauriscono le riserve dei cosiddetti "caratteri forti". Che sa piangere lacrime di sangue ad occhi chiusi, senza che se ne affacci una stilla.

Io non so se il mio sogno è durato veramente tutte le ore che durò quel viaggio. Ora che la maturità mi ha raggiunta non posso stare seduta tanto tempo senza che le mie ossa ne patiscano, senza che qualche crampo assalga qualcuno dei miei muscoli ormai stanchi. In questo vagone il tempo non passa mai. Una certa sofferenza fisica si impadronisce di me. Vorrei muovermi, alzarmi o distendermi sul mio sedile ma non oso farlo. Ho paura di spezzare l'incantesimo che mi circonda. La compagnia dei miei mi è troppo cara, ed ho paura di perderla se cedessi alle mia natura umana. No, devo restare, non perdere questo modo di essere senza esistere, di vedere senza essere vista.

Devo mantenere questa inversione di realtà: io, viva, devo rimanere nell'aspetto irreale rispetto a loro che, morti, hanno assunto un aspetto umano più certo e presente del mio.

Cerco di calcolare gli anni trascorsi dalla loro scomparsa: non ci riesco. Sento solamente il dolore crudele che ho provato per la loro perdita. Il dolore non si attenua con il trascorrere degli anni, ma, simile alla radice di una pianta, affonda sempre più nell'anima: scava sempre più in giù. L'albero del rimpianto diventa sempre più alto, sempre più maestoso, e lo stormire delle sue fronde non è che il racconto continuo della memoria che ti porta alla luce episodi ormai scomparsi, frasi interrotte e tenerezze dimenticate. Devo fare attenzione, molta attenzione a non cedere alla tentazione del sonno. Se mi addormento mi ritrovo a decenni di distanza dall'episodio che sto vivendo, non godrei più della compagnia dei miei cari, non li vedrei così ancora giovani e belli.

Negli ultimi tempi la mia memoria visiva si è come offuscata. Se non fosse per le fotografie scattate negli ultimi anni delle loro rispettive esistenze non so se ricorderei ancora i loro lineamenti. Tra le ultime scattate sul finire della nostra vita felice e le prime scattate a Roma, c'è più di un lustro di buio assoluto. In tutto il periodo della vita grama, nella lotta continua per combinare il pranzo con la cena, fra le spese indispensabili sostenute all'insegna di una spoliazione continua dei pochi valori rimasti, non ci sarà davvero la possibilità di pensare alle foto. Ricordo il mio disappunto quando la mamma o il papà reciteranno il loro sorridente diniego al paparazzo che aveva adocchiato la "presunta" felice famigliola per guadagnarsi magari l'unica posa della giornata!

Ci vorrà una fortunata combinazione per vedermi ritratta con mio padre una domenica mattina sulla scalinata della basilica di San Giovanni in Laterano: ma io avrò già sedici anni!

I miei figli, la nonna materna la conoscono solo in fotografia: sono nati troppo tardi. Sono stati privati sin dalla nascita del suo affetto, dei suoi baci, della sua allegria. La sua voce sonora simpaticamente arrotata dalla erre non ha mai pronunciato i loro nomi, e le loro orecchie non hanno mai goduto del suono rotondo delle sue risate. I loro occhi non si sono mai rallegrati dello splendore del suo sorriso: di quelle perle che luccicavano ancora quando mani pietose le hanno esumate dalla nuda terra.

Del nonno, invece, hanno tutti un meraviglioso ricordo. Nonno Nanni non lo hanno ancora dimenticato, anche se ormai sono adulti, indipendenti da tempo. Lo nominano spesso, ne parlano con me, me ne indicano i meriti e gli aspetti della sua personalità che hanno assunto come loro modello. Lui li amava tutti, senza distinzioni e senza parzialità. Era orgoglioso di loro, dei loro progressi, dei loro successi. Non ha potuto seguirli nelle loro affermazioni, nelle loro conquiste, ma ne parlava ed era sicuro della loro riuscita. Credo che non lo dimenticheranno mai, e lui seguiterà a vivere anche in loro.

E' terribile pensare che il destino ha imposto anche questa estrema rinuncia a mia madre.

Ora mi guardo dormire, distesa su quel sedile, serena, assolutamente ignara di tutto, tranquillizzata dal loro contatto che mi trasmette protezione e felicità.

Certamente io non ho pensieri o assilli in quel momento.

L'idea che sto andando a Roma mi rende felice.

Quando in un prima momento si era pensato a Milano, dove forse sarebbe stato più facile trovare un lavoro; io ero insorta scandalizzata: cosa andavamo a fare in quella città nebbiosa e frenetica, dove, secondo me, oltre al Duomo ed al Castello, non c'era altro con cui appagare quella sete di arte e di storia che stava in cima ai miei pensieri?

A Roma c'era il Colosseo, il foro romano, le vestigia antiche, il medioevo, il rinascimento, che tanto mi affascinavano senza che io potessi, allora, spiegarmi il perché. No, meglio Roma. Forse nel frattempo qualche circostanza a suo favore era venuta a darmi una mano, perché fu deciso così: mi piace credere che la mia determinazione vi abbia contribuito.

Anche per me gli anni a venire non saranno facili. In primo luogo le difficoltà materiali alle quali non sarò in grado di dare un peso determinante, anche se alle volte mi partirà qualche scatto di ribellione. Poi ci saranno i discorsi delle mie compagne più abbienti, i loro sguardi di sufficienza e compatimento. Dei particolari poi mi irriteranno al massimo: l'autista che aspetta qualcuno (ma che fine ha fatto la nostra macchina?) e quelle bellissime vetrine del centro piene di luce e di belle cose (ma perché avevamo sempre tanta fretta quando ci passavamo davanti?).

Ma non mi durerà mai molto. Beata giovinezza, che subito si distrarrà accarezzando un cucciolo o un gattino. Basterà una passeggiata a Villa Borghese o 1'invito a fare i compiti a casa dell'amichetta del cuore.

Mi sono avvicinata al finestrino per vedere subito quando si farà chiaro. Come è lunga la notte quando non si può dormire, dormire sodo come fà la bimba incontro a me, che nel sonno cerca addirittura di cambiare posizione. Per un attimo c'è il timore che cada. Ma no: con un guizzo mi sono già sistemata, con il viso verso lo schienale.

Come sono piccola! Ma sono proprio io? Quella gonnellina a pieghe di lana scozzese con i toni del marrone dal più chiaro al più scuro, le scarpette marroni, con la suola di caucciù e la patta sfrangiata, i calzettoni avana al polpaccio, il golfino verde salvia fatto a mano dalla mamma, morbido e caldo che si intona così bene con i miei occhi. Ricordo benissimo quanto mi piacesse quella mise. Mi vengono in mente le mie prime piccole civetterie che la mamma farà finta di scoraggiare, ma che tutto sommato le faranno piacere e le permetteranno di iniziarmi al suo innato buon gusto. Ci saranno gli anni in cui si crede di essere già pronti a decidere da sé: verranno certe cinture troppo strette, certi orli troppo corti e il rifiuto assoluto dei calzini ("ma mamma, ormai sono grande!").

Poi, piano piano, tutto si ridimensionerà: le cinture si allentano, gli abiti scendono al polpaccio; arriveranno le calze di bemberg ("Ma, figlia mia, come mai che ti si rompono così spesso?"). Anche i capelli si allungheranno: c'era la "divina" Alida che faceva scuola.

E le mani? Come mi si poteva considerare una signorina se ancora mi rosicchiavo le unghie?

Senza volerlo un sorriso di tenerezza mi stira leggermente le labbra: mi intenerisce vedermi ancora così piccola, così fragile, oggetto delle attenzioni dei miei.

Con un sospiro di rimpianto mi volto a guardare fuori: le tenebre cominciano ad allentarsi.

Guardo dalla parte del corridoio attraverso la porta dello scompartimento: non è ancora la luce, ma un che di lattiginoso comincia ad emergere da est. Torno a guardare dal finestrino: ma sì, è la maremma! Stiamo per entrare nel Lazio.

Si comincia a respirare un'aria quasi romana.

Nel buio non riesco a distinguere bene, ma conosco abbastanza la zona per averla percorsa tante volte in macchina. Prima l'Argentario, poi intuisco la laguna di Orbetello. Adesso ci troviamo nella zona etrusca della valle del Fiora.

La strada ferrata ora passa in vista del mare che è quella striscia più scura e piatta che divide la terra dal cielo, quell'elemento naturale che tanto posto trova nel mio cuore di marittima trapiantata in terraferma.

L'atmosfera sta cambiando, quel riflesso antelucano diventa via via sempre più deciso, fà spallidire i lumini radi che punteggiano il terreno ora piatto, ora ondulato; si odono nitidissimi i campanacci del bestiame, che comincia a muoversi dai rifugi dove ha passato la notte.

A quell'epoca erano ancora numerosi gli stazzi di canne ove pastori e mandriani dormivano con le bestie.

Tra poco saremo a Tarquinia. Mia madre a quel punto fà 1'atto di levarsi ma mio padre con uni gesto la ferma, si alza ed abbassa il finestrino; l'aria è effettivamente pesante. Si volta interrogativamente verso di lei che fà un cenno di approvazione, poi senza parlare gli indica la borsa da viaggio. Si intendono a gesti, a occhiate. Lei gli versa un po' di caffè da un piccolo thermos e se lo gustano in silenzio seduti uno incontro all'altro, mentre io ritorno al mio angolo vicino alla porta.

Tutto il vagone comincia a svegliarsi: si odono porte che scorrono, passi per il corridoio. Ad ogni rumore si voltano verso la figlia che, difatti, dopo un po' apre gli occhi. Si leva in piedi e si precipita verso il finestrino con una esclamazione di gioia e sorpresa: "Mamma, il mare!".

Da quel momento in poi non si leverà più dal finestrino: ora in piedi con il ginocchio appoggiato al sedile, poi seduta da una parte, poi dall'altra, infine, abbassato il piccolo tavolino, sarà un continuo esclamare di sorprese, un passare di corsa fra quello del corridoio e quello dello scompartimento per poter vedere bene le torri di avvistamento sparse qua e là, la cupa Tarquinia in bilico sul suo colle e poi il porto di Civitavecchia, le palme e i giardini di Santa Marinella.

Il castello di Santa Severa le strappa gridolini di ammirazione, né valgono a calmarla molto le esortazioni della mamma e del papà. Io mi guardo incredula. Non mi ricordavo così esuberante, e mi viene quasi un senso di colpa pensando a quante volte ho rimproverato ì miei figli perché si scatenavano in uguale maniera. Perché uno non ricorda mai la propria vivacità e si pone sempre a modello degli altri?

I bambini sono stati sempre e saranno sempre vivaci e spumeggianti, non si può comprimerli in nome della buona educazione. I miei, intelligentemente, non mi toglievano quella porzione di felicità e di gioia che mi animava tutta, che mi faceva chiacchierare senza posa per farmi poi ammutolire estatica davanti a quello spettacolo affascinante, al quale, sentivo e ricordavo, di saper partecipare intimamente.

Quante volte sul piazzale del Pincio le capiterà di rimanere estatica e commossa dinanzi al panorama di Roma, irto di campanili, gonfio di cupole, attraversato dalla doppia cintura degli alberi del lungotevere.

Quanti anni dovranno passare prima che possa contemplare una bella veduta di città e di traffico affacciata alla finestra di una casa che per la prima volta sarà veramente la loro, dopo un lungo ed avvilente vagabondare tra una camera d'affitto e l'altra sempre alle prese con padroni di casa arcigni od esosi.

Questa capacità di apprezzare ed appagarsi delle cose belle e genuine della vita è una dote che la piccola ha sempre posseduto: l'amore per il paesaggio, per la pittura, la scultura e la musica. Grande il suo cruccio di non averla potuta studiare! Il suo orecchio, la vocina intonata, le mani affusolate sarebbero stati degli ottimi aiuti per quella disciplina. Se le cose non fossero cambiate così drasticamente avrebbe potuto avere anche lei le sue lezioni di piano e le porte dell'università non le sarebbero state precluse. La guerra, poi, non avrebbe vanificato gli sforzi che i suoi sopportavano per farla studiare.

Cosa poteva immaginare quella testolina castana degli anni a venire, di tutta una vita incognita che si schiudeva avanti a lei? Viveva alla giornata, e se qualche volta si sorprendeva a pensare a quando sarebbe stata più grande, rimaneva un attimo soprapensiero, poi scrollava il capo quasi a cacciar via un'impressione molesta e tornava al presente, che era quello che contava in quel momento, quello che si poteva toccare, dire, assaporare senza preoccuparsi d'altro.

Il piatto litorale degli anni trenta stava quasi per terminare: Ladispoli, un pugnetto di case agli albori del suo sviluppo, Palidoro, poco più di una frazione, Palo con il suo castello da sempre celato nel verde della sua macchia. Di lì il treno comincia la sua marcia verso l'interno, verso la stazioncina di Maccarese, poi, sempre più allontanandosi dalla costa e dal mare, la campagna di Castel Malnome e di Ponte Galeria, oggi quasi inurbata ma allora considerata lontanissima.

Ora che Roma si sta avvicinando i miei si avvicinano al finestrino: sentono che il viaggio sta per finire; io avverto la loro agitazione, la curiosità che si agita nelle loro menti. Fino ad ora hanno vissuto come in una sorta di iniziazione alla loro nuova vita, è stato un sentirsi a mezz'aria: non erano più nella loro città, ma non erano ancora a Roma; avevano tempo per pensare, per sperare, forse, ma ora non ce n'è più. La svolta della loro esistenza è là, alla fine di quel binario, un'immensa voragine buia, che li avrebbe inghiottiti senza poter più né riflettere né sperare. E loro non volevate farsi ghermire così, senza rendersene conto, impreparati.

Aspettavano così, fermi e tesi come l'atleta che rannicchiato nella sua posizione attende la pistola dello starter per scattare in avanti.

Superata la stazioncina della Magliana proseguiamo per i prati che saranno poi ricoperti dai quartieri costruiti dal dopo guerra in poi. Mio padre, che è stato a Roma un paio di volte per organizzare il nostro trasferimento, comincia ad illustrarci quel poco che conosce. Il biondo Tevere che attraversiamo a monte del ponte di ferro, il complesso del mattatoio, la bianca sorpresa della piramide Cestia e le torri merlate di Porta San Paolo. Sotto di noi scorre l'area archeologica dell'Appia antica che, mi si promette, sarà presto meta di una interessante passeggiata.

Poi, quasi di colpo, il panorama cambia. La ferrovia corre lungo un budello tra grandi palazzoni anonimi ed informi. A quell'ora, in quella bianca ed uniforme luce diffusa delle mattinata invernali, quando il tempo non si è ancora deciso tra il bello o il brutto, con il fumo delle locomotive che, a quell'epoca, ancora la facevano da padrone, lo stato d'animo della piccola dall'emozione felice del gran cambiamento si trasforma in un brivido indefinibile: è la grande incognita che sente pesare su di sé. Quella zona, quei palazzi le sembrano immensi e tetri, avvolti in una nebbia da incubo. Le donne, i bambini, le loggette, i panni stesi, guizzano davanti ai suoi occhi in una confusione ed un ronzio da alveare. E' un formicolio di umanità che la respinge, la fà sentire estranea, e il fischio della "locomotiva le stride nelle orecchie, quasi un grido di dolore, lungo, straziante, portatore di sventura.

Respiro di sollievo con lei quando i binari rimangono padroni assoluti del panorama, disegnando sul terreno un labirinto d'acciaio. Finalmente con i primi raggi del sole entriamo sotto la volta vitrea della vecchia stazione di Termini. Mezz'ora dopo siamo già sotto l'orologio.

Il vecchio caro orologio sotto la pensilina a dalle colonnine di ferro scanalato! Quante volte mi vedrà passeggiare li sotto con i libri sotto il braccio ad aspettare la mamma che tornerà dal lavoro, o le amichette con le quali sarà bellissimo andare a spasso per via Nazionale.

Come ricordo quel paesaggio lontano, ormai da tempo demolito e sostituito dal moderno "dinosauro" certamente più efficace e funzionale! Mentre io sono in preda a quel rimpianto lei non fà che girare gli occhi attorno per cercare di afferrare l'insieme di quel piazzale che allora sembrava tanto grande.

E' frastornata dallo scampanellio continuo dei tram, dall'andirivieni degli autobus, dal vocìo dei viaggiatori che continuano ad entrare ed uscire dai due varchi sottostanti il quadrante.

Lei guarda alla sua destra le tavole apparecchiate del Valiani, il vecchio buffet dal tono distinto e signorile, le giardiniere in ferro piene di piante verdi a delimitare il suo spazio. Le tovaglie candide e le grandi alzate di frutta sui tavolini non fanno che aumentare quel gagliardo appetito che già le si agita nello stomaco, come tutte le mattine, del resto, per inveterata abitudine!

Vede gli alberi, tanti alberi, un fronte di alberi per tutta la larghezza della piazza, e quasi le sembra una barriera per lei, che si accinge all'assalto della città. In cima le due piccole altane del ministero delle finanze, che a lei sembrano due campaniletti: lo chiede alla mamma che però, in quel momento, non le dedica nessuna attenzione intenta com'è a decifrare in quella confusione la direzione giusta da prendere.

Sopra gli alberi, illuminato dal sole, si scorge appena il culmine dello zampillo della fontana delle naiadi, proprio quel punto, cioè, in cui esaurita la pressione che lo spinge ricomincia a scendere, formando una stretta curva. Sembra un chiodino di cristallo piantato lassù. Anche quella curiosità non viene esaudita, ed un'aria di delusa insoddisfazione comincia a dipingersi sul suo volto, ma all'improvviso un fragoroso e traballante tram a due vetture li inghiotte tutti e tre, bagagli compresi e comincia a correre, a correre fino a diventare piccolo piccolo, fino a sparire completamente.

Io lì, immobile, colta di sorpresa non riesco a fare una parola; cerco di correre, di chiamarli. Non posso. Vorrei seguirli, andare con loro. Come fare? Mi volto di scatto e penso: "Adesso chiamo un taxi". Di colpo mi ritrovo nella mia stanza.

Dalle stecche allentate della serranda entra quella bianca ed uniforme luce diffusa delle mattine invernali, quando il tempo non si è ancora deciso tra il bello o il brutto.

Dalla radiosveglia una voce gracchiante annuncia: "Signore e signori buongiorno, ecco a voi l'oroscopo del diciannove febbraio mille novecento ottanta sei".

Vittorina Novara

(1) fazione politica