Il Parco Regionale dei Monti Lucretili si estende per circa ventimila ettari ricchi di splendida vegetazione di gole profonde e di pareti altissime, di rocce a strapiombo e di prati dolcemente degradanti, di belvederi naturali Faticosamente accessibili dai quali lo sguardo può spaziare dalle più alte vette dell'Appennino centrale sino alle coste tirreniche.

Viene fatto di chiedere dove possa trovarsi una simile meraviglia. Sicuramente lontano di qui. Si trova invece ad una trentina di chilometri in linea d'aria, in direzione nord-est da quella megalopoli fumosa ed as?ttica che è divenuta Roma.

Essa costituisce la zona dei primi contrafforti del complesso sub-appenninico tirrenico laziale, oramai quasi raggiunto dalla Capitale che sta ingoiando ed avviando alla distruzione il territorio di quella sua "campagna" una volta considerato esempio di magica bellezza ed infinita suggestione.

Pochi, anzi pochissimi, fra i romani conoscono o hanno sentito parlare di questa meraviglia del loro Lazio, di questo fantastico Lazio la cui bellezza ed importanza viene da secoli oscurata da questa grande città che non è riuscita a difendere, anzi è riuscita ad eclissare ed offuscare la regione in cui si è sviluppata, quasi che a dire Roma si debba intendere tutta la piaga che si estende dal Flora al Garigliano.

Il modo più semplice e veloce per fare conoscenza con questa meraviglia della natura è quello di recarsi sul belvedere del Gianicolo, già osservatorio preferito dei vedutisti di Roma tra il XVII ed il XVIII secolo, ed andarsi ad ammirare de visu et seduta stante il magnifico colpo d'occhio del suo insieme.

Una volta affacciati a quella balaustra, meta obbligata degli odierni romei, scaricati a frotte dai loro mastodontici e inquinanti pullman da gran turismo, non date retta alle voci, ai nomi, che sentirete pronunciare intorno a voi. Ben difficilmente sentirete chiamare con il suo giusto nome quel complesso montuoso che fa da fondale al panorama e che d'inverno si trasforma in bastione naturale contro la neve ed i ghiacci delle montagne abruzzesi, l'avamposto dei quali - il monte Velino - nelle limpide giornate invernali fa "capoccella" con la sua cresta innevata.

Lo smog ed il cemento nascondono alla nostra vista quel poco di "campagna romana" che è rimasta ai loro piedi, ma possiamo sempre ammirare il loro inconfondibile profilo: la punta del monte Pellecchia che tutti li domina con i suo 1368 metri, il pizzo del monte Gennaro (m. 1271), le varie quote del monte Serrapopolo (m. 1180) la cima del monte Morra (m. 1036) e più in basso le cupolette dei monti Cornicolani: Montecelio, Poggio Cesi e S. Angelo Romano, così come volle eternarceli Giuseppe Vasi nel suo "Prospetto dell'Alma Città di Roma dal monte Gianicolo" eseguito nel 1765.

Fanno compagnia a queste cime - ma invisibili ai nostri occhi- la cima Coppi (m. 1211), la vetta Casarene (m. 1191), il monte Castellano (m.1084) ed il monte Follettoso (m. 1004).

Già da tempo l'idea di trasformare in un parco la vasta area dei monti Lucretili si era andata formando nella mente degli studiosi c degli amministratori civici di quei luoghi, interessati alla conservazione integrale di quel loro splendido territorio. Questo largo movimento di idee, che univa ed unisce tuttora a quei primi promotori tutta la popolazione, è stato la spinta iniziale che ha provocato la prima posizione ufficiale della Giunta Regionale: la Legge quadro relativa ai Parchi Regionali del 28 Novembre 1977 n. 46.

Formatisi quindi i Comitati Promotori, figure giuridiche che potevano colloquiare e collaborare con le Autorità Regionali, tra fasi alterne e difficoltà di vario genere, si giungeva nel 1985 alla Legge Galasso. Nel 1987 veniva approvato il Piano Territoriale formalmente definito dell'area dei Monti Lucretili. Infine nel 1989, il 26 giugno, veniva promulgata la Legge Regionale n. 41che stabiliva ufficialmente la nascita del nostro Parco definendolo "regionale naturale" e "destinato alla tutela, valorizzazione e razionale utilizzazione del territorio montano appenninico e delle sue componenti naturali, sociali e culturali".

I suoi confini sono quelli riportati nella cartografia in scala 1:25.000 allegata alla Legge di cui è parte integrante.

Al fine di rendere evidente l'ubicazione dell'area che ci interessa nell'ambito della zona circostante, ed in particolare nei confronti della Capitale, si è ridotta detta cartografia in scala 1:1 50.000 e la si è riportata in una carta della provincia di Roma (edita dalla stessa) di eguale valore.

La Legge stabilisce anche che la gestione del Parco venga affidata ad un Consorzio fra i Comuni di: Monteflavio, Montorio Romano, Moricone, Palombara Sabina, Marcellina, S. Polo de' Cavalieri, Vicovaro, Roccagiovine, Licenza, Percile, Scandriglia, Orvini o Poggio Moiano, cui vanno aggiunte la X Comunità Montana (Monti Sabini, Tiburtini, Cornicolani, Prenestini) e la IX Comunità Montana "Valle dell'Aniene".

Il nostro Comprensorio è inserito tra le due più importanti strade provinciali che uniscono la strada statale n. 4 (Salaria) e la strada statale n. 5 (Tiburtina Valeria) ed è quindi accessibile da ambedue i versanti. Il suo perimetro non è percorribile interamente ma solo per lunghi tratti e due sono le strade che lo attraversano, come si vedrà più avanti.

L'approccio più breve si ha dalla SS. Tiburtina Valeria. Salendo a S. Polo de' Cavalieri per il colle della Rampinella si può proseguire per Marcellina, Paombara Sabina, Moricone e Monteflavio: mentre i primi quattro si trovano alla sinistra della carrozzabile, cioè al di fuori del nostro territorio l'ultimo si trova alla destra e quindi all'interno del Parco stesso.

Se non si vuole salire per S. Polo si può proseguire sulla statale, oltrepassare Vicovaro (anch'essa all'esterno del confine) e prendere la strada per Roccagiovine, Licenza, Civitella, Percile ed infine Orvinio (l'antica Canemorto). Qui, invece, la strada, sino a Licenza fa da limite al Parco che si trova a mano sinistra, dopo di che prosegue all'interno del Parco stesso in direzione sud-nord per circa tredici chilometri prima di giungere alla meta. Dopo però si può proseguire sulla provinciale 314 sino a raggiungere Poggio Moiano e di qui scendere sulla Salaria.

Su questo versante il confine, oltre ad essere più lontano è molto meno accessibile. Da Passo Corese, per la strada di Montelibretti, si può raggiungere Moricone ma da lì vi sono solo due possibilità: la strada di sinistra che raggiunge il solo Monteflavio o la strada di destra che fa all'inverso il percorso Palombara Sabina, Marcellina, San Polo.

Il paesino di Scandriglia, anch'esso immediatamente al limite del Parco, è raggiungibile unicamente dalla SS. 4 ed è collegato solo con Orvinio per mezzo di una strada che attraversa il Comprensorio in direzione ovest-est, non carrozzabile.

Ritornando per un attimo alla cartografia occorre dire che i nostri monti sono stati rappresentati graficamente sin da tempi molto antichi: si pensi alla carta di Francesco Rosselli (1490-1500) conservata a Salisburgo; a quella di Eufrosino della Volpaia del 1547 relativa alla campagna romana; alla "Carta de1l'Agro Romano" dipinta da Pietro da Cortona su una parete del Casale di Castel Fusano; alla "Nova ed esatta tavola topografica del territorio o distretto di Roma" dell'abate Innocenzo Mattei, camaldolese, contemporanea alla "Diocesis et Agri Tiburtini topographia nunc primul trigonometrice delineata" dell'abate gerolimino Diego de Revillas y Soles, ambedue del XVII secolo; il Canina, nel 1845, ne delineò una esattissima superata solo da quella dell'Imperial Regio Istituto Geografico Militare di Vienna; ecc. ecc.

Infine se si vuole spendere una parola sul clima del nostro Parco occorre considerare che esso, addossato com'è alle montagne maggiori dell'Appennino centrale e contemporaneamente ubicato a poca distanza, in linea d'aria, dalle coste tirreniche usufruisce di tutti e tre i tipi climatici del bacino mediterraneo e cioè: quello marittimo proveniente dalla vicina fascia costiera, quello temperato della adiacente valle del Tevere, ed infine quello di montagna caratteristico delle quote superiori ai 500 metri; sempre tenendo presente che l'orientamento delle catene montuose e l'irregolarità delle loro aperture e delle valli in esso presenti, favoriscono e talvolta esasperano le condizioni di variabilità sino a produrre isolate ma ben caratterizzate perturbazioni.

La situazione oro-idrografica e geo-morfologica della nostra zona si può riassumere in qualche brevissimo cenno tanto per darne un'idea semplice ed accessibile.

È utile ricordare che circa 900 milioni di anni fa la maggior parte dei territori della nostra penisola erano ricoperti dalle acque marine. Mano a mano che esse si ritiravano il terreno, assorbiva e fagocitava tutti quei residui, viventi o no, che esse abbandonavano. Via via che i milioni di anni diminuiscono aumenta la presenza sulla Terra degli esseri viventi: prima gli invertebrati, poi i vertebrati, dopo i primi mammiferi cui seguono le prime scimmie antropomorfe ed infine l'uomo della cui primitiva esistenza si sono trovate nel nostro territorio cospicue tracce.

I segni di tutti questi passaggi sono presenti nel suolo del nostro complesso montagnoso. La sua conformazione presenta: argille, dolomie, calcari ben stratificati e calcari non strati?cati ricchi in selce; sedimenti litologici come il Rosso ammonitico; marne, sabbie, conglomerati di ciottoli di piccole dimensioni, frammenti di roccia forata dai litodomi. Notevoli gli aspetti carsici: doline e cavità sotterranee.

Queste ultime sono presenti sia nel tipo orizzontale che in quello verticale (pozzi). Non si tratta di formazioni di vaste dimensioni tuttavia l'interesse della speleologia è sempre costante poiché il territorio potrebbe essere suscettibile di ulteriori scoperte. Al momento ne sono state censite una dozzina che vengono qui elencate per comune di appartenenza:

Comune di S. Polo de' Cavalieri: Pozzo di S. Polo, la Sfondatora, Pozzo di Macchia del Prete, Pozzetto Sfondatora, Sfondatora di Monte Arcaro e Grottone sui Diacci.

Comune di Moricone: Pozzo Fornello o Furniglie.

Comune di Monteflavio: Grotte di Casa Nuvola, Pozzo del Colle di Mastro Bannetto.

Comune di Scandriglia: Il Pozzo.

Comune di Licenza: Grotta di S. Angelo, Grotta di Sora Maria, Fonte Piangione, Grotta di Capolicenza o delle Femmine.

Sempre all'origine carsica sono da attribuire i "Laghetti di Percile" detti anche i "Lagustelli". Oggi sono due ma in antico ve ne era un altro rappresentato sulle carte sino al 1795. Il maggiore è chiamato di "Fraturno" o di "Morrone" con una superficie all`incirca di mq. 9.000. Il minore non ha nome e si presenta come una grandissima pozzanghera.

L'intera zona presenta una significativa scarsità di acque sorgive: se ne contano circa una ventina per tutto il territorio con una maggiore distribuzione nella parte sud. Questa sembrerebbe la circostanza che non ha incoraggiato insediamenti umani al suo interno.

Numerosi ed estesi sono gli altipiani erbosi cui si contrappongono le forti denudazioni dei versanti occidentali più dirupati e rocciosi, favorevoli all'apertura di cave.

I versanti orientali sono più dolci e più ricchi di vegetazione. Secondo gli studiosi la popolazione vegetale del nostro Parco è la fase conclusiva di 150 milioni di anni di mutamenti, di incroci, di migrazioni e di adattamenti; quindi parlare di tutte le specie presenti nella zona è cosa impossibile, si procederà per sommi capi.

Della famiglia delle legnose (gli alberi) sono presenti: Salici, Pini, Pioppi e Faggi, Castagni, Cerri, Querce e Lecci, Noccioli, Lauri, Sorbi e Pistacci, Aceri, Ornelli e Frassini da Manna, il cosiddetto Albero di Giuda, il Celtis australis ecc. ecc. Una curiosità: con i rami di quest'ultimo si fanno Fruste per animali da tiro per cui viene chiamato in loco: "ciucciupicchio".

Tra le arbustive si trovano: la Rosa gallica, la Rosa canina, l'Evonimus, l'Atropa belladonna, l'Euforbia spinosa, il Mirto ecc. ecc..

Sono presenti anche delle Lianacee, naturalmente le Umbrellifere, le Orchidacee e le Cariofillacee.

Certe piante sembra abbiano preferenze per una particolare zona, ad esempio la Genziana che si reperisce solo nelle faggete molto elevate mentre la Mandragora autumnalis preferisce il Colle Rotondo (vicino alle rovine della villa di Orazio).

La maggior parte delle formazioni vegetali appartiene al genere mediterraneo ma ve ne sono anche di origine balcanico orientale come ad esempio lo "Stirax of?cinalis" distribuito dall'Asia minore alla Balcania, dall'Egeo alla Dalmazia identificato con certezza in Italia solamente nella nostra zona.

Idem per la "Digitalis ferruginea". Qua e là esistono tracce non trascurabili di penetrazione di piante meridionali, addirittura di steppe africane.

Attorno ai Lagustelli di Percile diverse specie di graminacee, di salici, di ranuncoli ed altro.

Il carattere estremamente ricco e variato della nostra flora è motivo di un altrettanto ricco e variato assortimento della entofauna. Coleotteri, farfalle e lepidottcri, alcuni abbastanza rari (vi sono state catture uniche in Italia) ai quali si debbono aggiungere i rettili e gli anfibi stanziati nei ruscelli delle sorgenti e nei fossi provocati dalle precipitazioni. Vi si possono trovare le Rane verdi e quelle rosse, i Rospi, il Tritone punteggiato e quello crestato.

È quasi certa la presenza dell'Ululone dal ventre giallo originario dei monti della Tolfa e sembra sia stata localizzata la Salamandra gialla e nera mentre è certa la Salamandrina con gli occhiali.

L'abbondanza di insetti assicura la sopravvivenza di tutta questa popolazione alla quale vanno aggiunti i Sauri ed i Rettili; tra le varie famiglie di questi ultimi si trova la Vipera aspis, l'unica velenosa tra quelle presenti. Infine, sebbene in presenze molto limitate, è reperibile la testuggine comune e la testuggine palustre.

Gli ambienti boschivi e sempreverdi distribuiti a macchie nel nostro comprensorio facilitano l'esistenza di piccole colonie di mammiferi di ridotte dimensioni quali il tasso, la martora, la faina, la donnola e l'istrice mentre è scomparsa la lontra. Le forre più cupe e scoscese ospitano ancora qualche esemplare di gatto selvatico mentre nei boschi vivono numerosi micromammiferi: scoiattoli, talpe, arvicole, topiragno, topi quercini, ratti neri.

Un accenno a parte merita il cinghiale presente in gran numero su tutto il nostro territorio; una presenza piuttosto dannosa poiché, anche se è vero che generalmente il maschio caccia da solo o al massimo con un compagno, è considerevole il bilancio dei danni provocati dai branchi composti dalle numerose femmine con i piccoli.

Per ultimo il lupo, ormai molto raro ma non ancora del tutto scomparso. Sebbene il nostro Parco sia stato classificato come area di presenza saltuaria per questo predatore, occorre dire che la maggior parte dei danni a lui imputati dagli allevatori sono da attribuire maggiormente ai cani rinselvatichiti, tragica conseguenza, questa, del randagismo canino particolarmente di quello cittadino.

Per l'avifauna la presenza più importante è la coppia di aquile reali per la quale, però, si sono dovute organizzare già da qualche anno delle postazioni di sorveglianza al fine di assicurare una regolare riproduzione ponendo fine alla depredazione dei loro nati che aveva provocato la definitiva scomparsa del rapace dalla zona.

Nelle valli più boscose e fonde è facile riconoscere lo sparviero, la poiana ed il falco pecchiaiolo. In passato non era raro osservare i nibbi reali al presente solo qualche nibbio bruno. Il capovaccaio non è stato più avvistato già dagli anni successivi alla prima guerra mondiale. Di recente si è tornati ad avvistare il falco pellegrino.

Questi sono gli abitanti delle zone medio-alte delle nostre montagne, mentre nella zona basale (che non supera i 500 metri di altezza) vive una numerosissima quantità di volatili. Oltre le specie più comuni quali i passeri, i pettirossi, i merli, i fringuelli, si trovano il picchio, la cincia bigia, il cuculo, l'upupa, il picchio verde.

D'inverno non è difficile osservare il tordo sassello, il ciuffolotto e il frosone.

Molto diffusi l'occhiocotto, la sterpazzola, il saltimpalo e lo zigolo nero.

Il rigogolo che costruisce i suoi nidi sospendendoli ai rami degli alberi. È presente anche il succiacapre e sono comuni la capinera, l'usignolo, l'averla piccola, la cinciallegra, la cinciarella e la ghiandaia.

Tra i rapaci notturni oltre al barbagianni ed alla civetta anche l'allocco mentre dai pozzi e dalle grotte sciamano i Pipistrelli.

Ci si potrebbe ora chiedere perché "Parco dei Monti Lucretili" dal momento che quando Orazio canta:

"... velox amoeno saepe Lucretilem
mutat Lycaeo Faunus..."

si riferisce quasi sicuramente a quello che oggi viene chiamato Colle Rotondo nella zona basale del Gennaro.

Comunque la definizione "mons Lucretile" ha origini che si perdono nella notte dei tempi. Ci riferisce il Duchesne (Liber Ponti?calis - Parigi 1886) che al tempo di Papa Silvestro tra i doni elargiti da Costantino alla chiesa dei martiri Marcellino e Pietro viene elencato il possedimento sabino denominato "Duas Casas" situato "sub monte Lucreti".

Anche Giacomo Volpi nel suo "Vetium Latius profanum" scriveva: "Mons Lucretilis aliquibus creditur ille qui modo dicitur monte Gennaro..." (Romae 1745).

Pure l'abate B. Capmartine de Chaupy nella sua pubblicazione del 1769 nella quale presentava la sua grande scoperta: il ritrovamento della villa del Poeta nella valle del Licenza, identificava il "Lucretile " nel Gennaro.

Il primo ad attribuire quel nome, non al solo Gennaro ma a tutte le alture comprese nel nostro territorio, fu il geologo Filippo Porena nel 1892; la sua tesi, poi, fu pienamente condivisa da un altro illustre studioso: il geografo udinese Giovanni Marinelli.

La denominazione iniziò a fare presa sugli "addetti ai lavori" seppure con qualche distinguo; poi, però, finì per entrare nell'uso comune.

Si possono, ora, prendere in considerazione le principali attività economiche del nostro Comprensorio. Non sarà un discorso lungo.

Per tutta la prima metà del nostro secolo, ed anche un poco oltre, l'allevamento del bestiame era una delle più importanti.

Purtroppo, la vicinanza della Capitale ed il miraggio di un miglioramento nelle proprie condizioni di vita hanno allontanato molti elementi giovani e l'eccessivo costo della mano d'opera ne ha impedito la sostituzione. Tutto ciò ha relegato quella attività ad un ruolo secondario quando non addirittura a pura integrazione del bilancio familiare.

Gli animali più grossi vengono lasciati allo stato brado e questo li rende ancora più antieconomici sia per l'alta mortalità che per le predazioni. Gli ovini ed i caprini vengono seguiti con maggiore attenzione poiché i loro prodotti sono ancora abbastanza remunerativi se si esclude il forte calo della lana.

La Regione Lazio ha cercato di rimediare istituendo la politica del Marchio DOC attraverso i Consorzi di Produttori per quanto concerne i prodotti caseari, mentre per le perdite dei capi ha istituito un rimborso a prezzo di mercato per ciascun esemplare perduto. Ma occorrerebbe estirpare il male alla fonte cercando di eliminare il randagismo canino, oggetto al presente di studi accurati che dimostrano come la vita di questi animali stia assumendo le forme di quella del lupo.

L'agricoltura è praticata principalmente nelle poche zone pianeggianti o nei versanti orientali dei rilievi, in genere più dolci di quelli occidentali, o ancora nei numerosi terrazzamenti costruiti in antico principalmente a scopo difensivo e poi abbandonati.

Da qualche anno si è iniziato a praticare l'apicoltura mentre è secolare la coltura dell'olivo alle falde ed alle basse quote.

Una limitata attività estrattiva di travertino viene effettuata nella parte più settentrionale del Parco; anche sui versanti occidentali dei rilievi, più brulli e calcarei, insiste qualche cava.

Si è visto come sia abbastanza recente la definizione di "Monti Lucretili" al nostro complesso montuoso. Pure, dalla cospicua letteratura fin qui pervenuta dai tanti studiosi che se ne sono interessati, appare chiarissimo come essi lo abbiano considerato sin dai tempi più remoti un organismo unico, un'aggregazione che faceva capo, stranamente, non alla montagna più alta (il Pellecchia) ma al massiccio più noto: il monte Gennaro.

Nessuno parla specificatamente di questo o di quel monte. Tutti ne parlano come i "monti sopra Tivoli".

Così dice lo spagnolo Andrea Laguna di Segovia (1490-1560) nei cinque tomi che compongono il suo "Trattato sulle erbe velenose e medicinali" e lo ripete il naturalista, botanico e medico Ulisse Aldrovandi (1522-1605).

Idem il medico e botanico Pier Andrea Mattioli (1501-1577) nei sui celeberrimi "Commentati" tradotti persino in arabo! Giovanni Faber (1575-l629) semplicista di più Papi e professore di botanica alla Sapienza e Giovanni Eeck (italianizzato in Ecchio), per parecchi anni a Scandriglia al servizio degli Orsini, parimenti si esprimono nei loro scritti.

Ma la conferma più autorevole è quella del gesuita Atanasio Kircher (1602-1680) fondatore del primo museo scientifico di Roma presso il suo convento al Collegio Romano, autore del primo testo di geologia moderna "Mundus subterraneus" nonché della prima razionale e scientificamente fondata esposizione di tutta la nostra regione dove il nostro territorio viene esaminato come entità unica: "Latium" Waesberge 1671.

Una curiosità: parlando della raccolta della manna, che si effettuava sia dall'Ornello che dal Frassino della Manna, egli osservava come, pur essendo presenti queste piante in altri siti sia d'Italia che del Lazio, "in hoc tamen solo monti districtu", se ne raccogliesse gran copia.

Infine il grande geologo e paleontologo veneto Giovanni Battista Brocchi (1771-1826) si esprime in eguale maniera nel suo "Catalogo ragionato" (ancora oggi testo basilare per lo studio delle rocce italiane) a proposito del tessuto roccioso del "complesso dei monti Lucretili".

Molto in breve un cenno sull'origine dei toponimi, iniziando dal Monte Gennaro la più conosciuta delle alture, e per il quale sono state formulate diverse congetture.

Una di queste nasce dalla leggenda relativa al martire Gennaro, da non confondere con l'omonimo Vescovo Patrono di Napoli, ma il diacono romano, martirizzato insieme all'altro diacono S. Lorenzo, guarda caso, Patrono di Tivoli.

Un documento del 1229, riportato negli "Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte" tomo III, 1923, pag. 51, parla di una cappella esistente sulla cima. In questo luogo, oggi, esiste una spianata che ha tutta l'aria di essere frutto della mano dell'uomo su cui insistono pochi avanzi di una torretta: per saperne di più sarebbe necessaria un'approfondita indagine archeologica.

Lo studioso A.F. Sebastiani avanza invece l'ipotesi che esso possa derivare dal nome di persona "Ianuarius" in tempi molto antichi usato anche come "cognomen". Lo dimostrerebbero, secondo il nostro, le numerose epigra? latine reperite nel territorio ed anche al di fuori, specialmente a Tivoli.

Né va tenuta in minor conto la tesi che si riferisce all'appellativo di Ianus dato al nostro Monte dal principe Federico Cesi (Roma 1581 - Acquasparta 1631), fondatore della prima accademia scientifica del mondo moderno, nella quale si usarono per la prima volta strumenti quali il microscopio ed il telescopio, la cui invenzione ?ssò una tappa fondamentale per la scienza.

A quota 1024 sul Gennaro si apre uno splendido piano carsico chiuso, (Dolina), chiamato il "Pratone" che il Nostro aveva destinato a luogo di riunione degli Arcadi probabilmente nel periodo dei trasferimenti estivi. Giovanni Faber testimonia che il Massimo Linceo effettuava personalmente raccolte botaniche di cui poi scriveva "ex amphiteatro nostro et Iani apice" oppure "Iani apicem aduc non visitavit". Dal che si può supporre che egli avesse raccolto il nome sul luogo ma poi lo avesse latinizzato in "Iani apex" ed italianizzato in "Monte di Giano".

Questa opinione del Cesi trova conferma nei Regesti Tiburtini dove la località di S. Polo de'Cavalieri viene definita in alcuni casi con il toponimo di "Ianula" o "Iana" ovvero la piccola Iana. C'è un documento del 945 che recita "fundum Ianula cum ecclesia Sancti Pauli" e un altro di Gregorio V11 dello stesso anno che si riferisce al "Castellum quod vocatur Sanctus Paulo in Iana".

Nel 1952 Enrico Martinori, nel suo "Le vie d'Italia", segnala che su un masso informe posto all'incrocio tra la strada che congiunge Palombara alla via Salaria e la Via Nomentana antica (da tempo abbandonata ed oggi poco più che un tratturo) esisteva un masso informe sul quale ancora si poteva leggere "... Iana...".

Se il Gennaro è il più conosciuto, il Pellecchia è il più alto dei rilievi del nostro Parco, ma del suo nome altro non si può dire che esso è la volgarizzazione del vocabolo "Pennecchio" ancora usato a Monteflavio e ad Orvinio, derivato a sua volta da Penniculus, chiaramente "Piccola penna" ovvero pizzo, punta.

Il monte Serrapopolo viene così chiamato per la sua conformazione dentata, a sega, dal latino "serr". La seconda componente farebbe pensare al "pioppo" ma è un'inesattezza poiché questa pianta non cresce alla sua altitudine.

Per la "Morra" c'è il riferimento al termine molto diffuso nell'Italia centrale e precisamente: murra/ mura/ mora/ morta vale a dire "pietra o mucchio di pietre". In tempi molto antichi e cioè sino al XIII secolo, il suo nome era "Favale" chiaramente derivato dal faggio che la popolava e che ancora oggi in dialetto si dice "favo".

Va da sé che tutto il territorio compreso nel nostro Parco è ricco di testimonianze archeologiche che vanno dalla preistoria sino all'Evo Moderno.

La zona del Parco dei Monti Lucretili inserito nella carta geografica della Provincia di Roma (particolare)

Giuseppe Vasi: prospetto dell'Alma Città di Roma vista dal Monte Gianicolo. 1765 (stampa) parte centrale

Questa abbondanza deriva in generale dalla scarsità degli insediamenti umani e quindi non si sono avuti né demolizioni né reimpieghi, solo l'azione distruggitrice degli elementi atmosferici particolarmente efficaci alle quote elevate.

Molto numerosi i reperti preistorici: schegge, strumenti, raschiatoi, bulini, coltelli delle varie età della pietra oltre ad un piccolo numero dell'età dei metalli.

Fra le testimonianze dell'età classica moltissimi i terrazzamenti vuoi per uso agricolo vuoi per uso difensivo; poi le cisterne, le dighe di sbarramento, le chiuse, talmente numerose che hanno indotto gli studiosi ad ipotizzare la presenza di un vero e proprio acquedotto per il rifornimento idrico delle numerose abitazioni. Infine le ville vere e proprie che numerose sono venute alla luce, per la maggior parte risalenti al I secolo a.C. mentre l'ultimo ritrovamento effettuato dalla Sopraintendenza in località Pantano nei pressi di Moricone sembra risalire alla seconda metà del II secolo a.C..

La più celebre di queste abitazioni è precisamente la Villa di Orazio, non grandissima - egli aveva infatti non più di otto o nove schiavi che ne avevano cura - e nemmeno tra le più lussuose: i mosaici che vi sono stati rinvenuti sono del tipo più semplice, in bianco e nero a motivi geometrici. Attualmente non sono visibili perché sono stati interrati per conservarli meglio. Quello che rimane di questa casa serve a malapena a tracciarne la pianta, neppure completa, sul terreno.

I ruderi si trovano a metà della strada che, staccandosi dalla Tiburtina Valeria poco dopo Vicovaro, conduce a Licenza, poco oltre il diverticolo che porta a Roccagiovine.

Il poeta, che la ebbe in dono dal suo protettore, il ricchissimo Caio Cilnio Mecenate, la amava a tal punto che non avrebbe voluto abbandonarla mai. Egli la cita sovente nelle sue poesie e nelle sue lettere: ci parla del Digenzia, il gelido rivo oggi detto Licenza, ci identifica con esattezza Mandela, parla dell'ameno Lucretile riferendosi alle alture che circondavano la sua "domus" e canta la "Fonte Bandusia" che qualcuno vorrebbe identificare nell'odierna "Fonte Oratina" posta a mezza costa sulle alture che lo sovrastavano.

Per le altre epoche si possono citare i ruderi della chiesa di S. Nicola di presumibile epoca romanica anche se non si può escludere un insediamento anteriore dato che essa utilizza parte di una villa romana; le imponenti rovine della forti?cazione detta di "Castiglione" eretta quasi certamente su di una precedente struttura di epoca romana e da cui degradano una serie rilevante di terrazzamenti.

Sul monte Pellecchia, quasi completamente coperti dalla vegetazione, si trovano i ruderi del cosiddetto "Castello di Montefalco" progenitore dell'odierno paese di Monteflavio voluti entrambi dal cardinale Flavio Orsini. Una volta queste rovine venivano chiamate "Monteflavio vecchio".

Di notevole interesse i resti della Pieve de' Ronci più conosciuta come "Madonna de' Ronci" sita nell'omonimo fossato nella zona di S. Polo, per la maggior parte soffocati dai rovi.

Maggiore l'entità delle rovine del villaggio di Stazzano nel circondario di Moricone alle falde del monte Marano che il Mattei, nella sua bella carta del 1674 definisce "olim villa Mecenatis". Il piccolo centro fu abbandonato forse a causa di una epidemia e ricostruito più a valle, l'odierno "Stazzano nuovo".

Meno noto ma certamente paragonabile al più celebre esempio di Castiglione, il complesso murario denominato "Muraccio del Poggio", sempre nella zona di S. Polo.

Sorprendenti ed affascinanti i resti degli insediamenti rupestri, con o senza aggiunte in muratura, visibili nei pressi di Montorio Romano. Un minuscolo Monte Athos sabino! L'immagine si ripete sulla parete rocciosa del monte Morra.

Ad un chilometro e mezzo circa da Orvinio resistono ancora i resti di una parte della cinta di una rocca con quello che rimane di un poderoso mastio ed una chiesa che, rifatta nel seicento e ristrutturata di recente, è ancora in funzione.

Questa semplice ed elementare presentazione di quella piccola meraviglia della natura che è il Parco dei Monti Lucretili non pretende di esaurire - nella sua incompletezza - tutto ciò che si può ancora dire su di esso. La speranza è che, invece, essa accenda nel lettore la curiosità di visitarlo per rendersi conto personalmente che la sua creazione costituisce veramente una tappa fondamentale nel cammino della conservazione e della valorizzazione della natura, ed un dovere nei confronti del nostro Paese.

Vittorina Novara

BIBLIOGRAFIA: G. DE ANGELIS E ALTRI: "Il Parco dei Monti Lucretili", Roma 1988.