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I misteri del processo Monti e Tognetti

APPENDICE

STORIA SUCCINTA DELL' INSURREZIONE ROMANA

Dacché la nazione italiana per mirabile forza degli uomini e degli eventi, dopo tanti secoli di schiavitù e di divisione, poté dirsi libera e unita, un sentimento unanime, spontaneo, interpretato da un voto del Parlamento nazionale, volle e gridò Roma capitale d' Italia.

Una necessità storica e politica, dettò quel voto, e mantenne costantemente fisso nell'animo degli Italiani il desiderio di aver libera dal giogo dei preti la propria capitale. E quando le provincie venete furono anch'esse liberate dallo straniero, e cesso quell'incubo del quadrilatero, che pesava su noi come un'eterna minaccia, e quando mancò al re di Roma il sostegno delle armi francesi, quel desiderio divenne più irresistibile e veemente. Parve venuto il momento di redimere l'antica regina, di rivendicare la capitale d'Italia, e gli sguardi di tutti si volsero su Roma.

Questa opportunità fu sentita, egualmente dai Romani, i quali decisi ad affrettare il giorno del riscatto, fino dall'aprile 1867 costituirono un centro d'insurrezione, che fu rappresentato in Firenze dal centro di emigrazione sotto gli auspici di Garibaldi. I concerti e i preparativi del movimento durarono tutto l'estate, fino a che nel 17 settembre, il generale Garibaldi, nel quale si accentravano le speranze della liberazione di Roma, comparve a Firenze manifestando apertamente l'intenzione di operare per quello scopo supremo.

Nei giorni seguenti apparvero le prime schiere d'insorti nelle provincie soggette al dominio pontificio, e per entrare in azione aspettavano forse la venuta di Garibaldi, designato naturalmente qual duce di quell'impresa. Ma il Generale, che il 22 settembre era partito da Firenze per Arezzo, e, oltrepassata quest'ultima città, procedeva verso il confine romano, veniva arrestato ad Asina lunga per ordine del ministro Rattazzi: e in pari tempo una nota del governo italiano, spiegando quella misura, disapprovava gli atti di Garibaldi. Esso dopo essere stato rinchiuso per due giorni nella fortezza di Alessandria fu condotto a Caprera.

A Firenze, a Milano, a Napoli e nelle altre città principali, del regno imponenti dimostrazioni popolari protestarono contro l'arresto del generale e in favore del movimento romano.

Nel giorno 30 di settembre, non ostante la mancanza di Garibaldi, scoppiò la rivolta nella provincia di Viterbo. Il fatto più importante di quel giorno fu la presa di Acqua pendente, dove quaranta gendarmi rimasero prigionieri degli insorti.

A Bagno Rea in uno scontro che durò due ore i pontifici sono battuti; così pure a Otricoli. Il movimento si propaga a Orte e a Ronciglio, convergendo verso Viterbo. La rivolta si estende in pari tempo nei monti di Bolsena, Soriano e Cabrarlo.

Frattanto il comitato d'insurrezione rivolge un appello ai fratelli italiani, chiedendo il loro soccorso; e insieme agli emigrati romani, che si affrettano a rientrare nel loro paese, dei giovani animosi d'ogni parte d'Italia corrono ad ingrossare le file degli insorti. Garibaldi tenta anch'esso di accorrere in loro aiuto, ma avendo lasciato Caprera il 2 ottobre, viene arrestato in mare, e ricondotto in quell'isola.

Nella città di Roma la Giunta Nazionale Romana che precedentemente vi aveva dirette le dimostrazioni, nazionali, credendosi incompatibile coi nuovi avvenimenti si era ritirata fino dal 21 settembre; e nella direzione del partito liberale erano subentrati i capi-sezione dell'associazione nazionale, i quali al 27 dello stesso settembre avevano diretto un proclama al popolo romano, perché si tenesse pronto al movimento insurrezionale. Ora allo scoppio della rivolta viterbese la direzione dei moti rivoluzionari, fu assunta in Roma da un comitato di salute pubblica. Il governo papale intanto procedeva a perquisizioni ed arresti senza fine, i quali cominciati il 30 settembre proseguirono non interrotti nei giorni seguenti.

L'insurrezione procedeva; non passava giorno senza che avvenisse qualche scontro, ora a Nerola, ora a S. Lorenzo, e al Pianale, e a Corneto, dove furono battuti gli zuavi del papa. Fu contrario alle fortune della rivolta il combattimento di Bagnorea del 5 ottobre, nel quale 350 insorti attaccati da 1200 papalini, dopo avere strenuamente combattuto, sopraffatti dal numero, furono astretti a ripiegare nei boschi di Goti e di Spicciano, lasciando nelle mani degli zuavi cento prigionieri, che vennero tradotti nelle carceri di Civitavecchia.

Una brillante rivincita fu presa nel giorno seguente a Monte Rotondo, dove la squadra comandata da Menotti Garibaldi batté e respinse quattro compagnie di zuavi, e occupò quel paese.

L'insurrezione si estende sempre: le schiere degli insorti si spiegano nelle vicinanze di Frosinone, nei boschi sopra Monte Fiascone, e lungo la linea dell'Appennino, mentre una squadra importante tiene la campagna presso Velletri. Nelle scaramucce di Corese e di Mentana i pontifici hanno la peggio: le schiere dei volontari occupano Nerola, Vicovaro, Ferentino, e i loro sforzi si dirigono verso la capitale. Menotti Garibaldi con cinquecento giovani si spinge fino a venti miglia da Rama. Gli zuavi che lo attaccano sono battuti e respinti fino a Montemaggiore, dove si fortificano. Nel giorno 13 ottobre gli stessi zuavi sono nuovamente sconfitti dalle schiere di Menotti a Montelibretti.

Nei giorni seguenti le squadre di Nicotera e di Ghirelli si congiungono a quelle di Menotti che arriva fino a sei miglia di distanza da Rama.

Così procedendo le cose degli insorti, e avvicinandosi essi alle porte della città, il Senatore di Roma presenta al Pontefice un indirizzo con cui dodici mila cittadini romani domandano, che s'invochi l'ingresso delle truppe italiane; ma l'astuta Curia, che sapeva di poter contare sull'appoggio francese, respinge sdegnosamente la domanda dei sudditi romani. Infatti in quel giorno medesimo, 18 ottobre, l'inviato francese aveva assicurato il governo papale che non gli sarebbe mancato l'appoggio della Francia.

Nel giorno 21 di quel mese riesce a Garibaldi di lasciare Caprera e raggiungere gl'insorti; la sua presenza infonde nuovo spirito in quei valorosi, che si accingono al supremo cimento.

In tale situazione la città di Roma non può più restarsene inoperosa. Sebbene stremata delle forze liberali, per le precedenti emigrazioni, e per le continue e raddoppiate carcerazioni, sebbene soffocata dalla sterminata immigrazione cosmopolita che fece delle sue sacre mura il recinto della reazione, sebbene avviluppata nelle spire della polizia, e del clericalismo, essa sente il dovere di partecipare alla lotta, come che sia, a costo di rimanere schiacciata; e si dispone a quella insurrezione, alla quale se mancarono le armi e le fortune non difettarono il coraggio e la costanza.

Il giorno che il comitato romano d'insurrezione aveva destinato all'azione era il 22 di ottobre, l'ora del cominciamento le 7 di sera.

Una fatalità, dalla quale ebbero principio i disastri di quella rivolta, e divenne la causa principale del rovescio totale, fu la perdita del deposito di armi e munizioni, che il comitato superando infinite difficoltà aveva adunato fuori di porta San Paolo. Quelle armi deposte nella vigna Matteini dovevano essere introdotte a forza per la porta San Paolo, al momento d'incominciare la lotta. Disgraziatamente la polizia pontificia ebbe a scoprire in tempo quel deposito, e alle ore 5 e un quarto, cioè quasi due ore prima dell'ora fissata, una colonna di pontifici composta di una compagnia di zuavi e di mezzo squadrone di gendarmi a cavallo moveva ad attaccare la vigna Matteini per impossessarsene.

In quel momento alla vigna non si trovavano che sette od otto individui lasciati a custodia delle armi. Il resto della gente destinata a trovarsi in questa posizione, circa 200 giovani scelti, era stata o arrestata o costretta a retrocedere nell'uscire dalla porta San Giovanni, l'unica aperta in quel giorno. Lottare contro un numero così soverchiante di nemici pareva follia. Tuttavia, prima d'abbandonare la casa furono scambiati da una parte e dall'altra alcuni colpi.

Intanto che fuori di Rama le armi andavano perdute, quei di dentro, ignari del fatto, alle sei e mezza, ora stabilita, assalivano audacemente il corpo di guardia alla porta San Paolo, se ne impadronivano, l'abbruciavano, e l'aprivano.

Ma atterrata la porta, invece di trovare gli amici, trovarono i nemici. Era la colonna reduce dall'impresa della vigna Matteini, e contr'essa sostennero l'urto, costringendola a ripiegare.

Di più, attaocarono il picchetto di guardia della polveriera vicina, e lo fecero prigioniero.

Non fu che alle 9 e mezza di sera che una forte colonna nemica ritornò all'attacco e poté ricuperare porta San Paolo, mentre gl'insorti ripararono, alcuni nelle vigne vicine, altri sull'Aventino.

Una colonna di circa 800 giovani, fiore di Roma, occupando tutto il lungo tramite di vie che da porta San Paolo va lungo la Marmorata fino alla Bocca della Verità, ed a piazza Montanara stava aspettando le armi per lanciarsi secondo i punti designati nell'azione; ma inermi, circondati in brev'ora da un fitto cordone di truppa, dopo aver ricevuto di piè fermo il fuoco nemico, sopraffatti dal numero, dovettero darsi prigionieri.

Ben duecento giovani romani andarono a stipare le già popolate prigioni della tirannide pontificia.

Fallito il tentativo nella vigna Matteini e porta San Paolo, il difetto di armi parali va ormai l'azione di tutta quell'altra parte di popolo, che da piazza Montanara e dalle vie circostanti aveva per principale obbiettivo la presa del Campidoglio.

Il Campidoglio, che fin dalle ultime ore del giorno non pareva guardato che da un picchetto di pochi uomini, apparve improvvisamente occupato da una compagnia di cacciatori esteri, che stava nascosta nel palazzo dei Conservatori, sicché quando gl'insorti aprirono il fuoco e tentarono salire la scalinata, furono respinti da una vivissima fucilata, che ne rovesciò parecchi sul terreno.

Tuttavia, ad onta del fallito tentativo di sorpresa, e quindi della sfavorevole posizione nella quale si trovavano gl'insorti, muniti di pochi fucili e di bombe Orsini, tennero fermo per qualche tempo, e risposero arditamente al fuoco del nemico arrecandogli sensibili perdite, fra le quali un capitano di gendarmi ucciso.

Anche dal lato del Foro R›mano buon numero di popolani tentò occupare il Campidoglio, salendo dalla parte di rupe Tarpea e dell'arco di Settimio Severo.

Trovarono quegli sbocchi fortemente occupati, e sebbene minacciati alle spalle dai cacciatori esteri della vicina caserma, sostennero animosi gli attacchi del nemico, che al pari dei Romani lasciò sul terreno buon numero di morti e feriti.

In piazza Colonna la fazione di guardia venne uccisa, parecchie bombe furono esplose, ma fatalmente il deposito di revolvers destinato ad armare gli insorti che dovevano attaccare il comando di piazza ed il palazzo di polizia a Monte Citorio fu scoperto e sequestrato nel momento appunto che si doveva farne la distribuzione. Non fu più possibile nemmeno impegnare il conflitto, e forti pattuglie di cavalleria e fanteria dispersero gli assembramenti facendo numerosi arresti.

Nello stesso tempo avveniva l'esplosione della mina ch'era stata sottoposta alla caserma Serristori occupata dagli zuavi pontifici. Una parte di quella caserma crollò seppellendo alcuni soldati nella ruina.

Nel giorno seguente accadeva un altro grave infortunio per la causa dell'insurrezione. I prodi fratelli Cairoli, saputo il bisogno d'armi in cui si trovavano i Romani, avevano stabilito di portare con altri cinquanta compagni un buon numero di fucili dentro le mura di Roma. Quegli animosi avevano presa posizione sui monti Parioli, nella vigna Glorio fuori di porta del Popolo, circa a due miglia di Roma, e attendevano il momento propizio per introdursi nella città, quando alle ore 4 di quel nefasto giorno 23 il loro asilo fu scoperto. La vigna Glorio venne assalita da cinquecento zuavi, che combatterono dieci contro uno, e i magnanimi compagni difendendosi eroicamente furono sopraffatti dalla forza preponderante.

Percossi dal cumulo di tanti rovesci, agitati dal sospetto che il tradimento si fosse già insinuato nelle loro file, i Romani non deposero il pensiero della resistenza. Quanti patrioti potevano sottrarsi alle prigioni accorrevano presso il comitato dicendo: "Bisogna continuare a qualunque costo." E i Romani continuarono a protestare collo spargimento del proprio sangue contro l'abborrito governo del papa.

La sera del 23 imbruniva appena, quando a San Lorenzo e Damaso una compagnia di antiboini che traduceva un drappello di prigionieri romani e garibaldini venne attaccata dal popolo, in parte disarmata, e costretta a lasciare i prigionieri.

Molte altre pattuglie venivano nello stesso tempo assalite con bombe all'Orsini verso piazza di Pasquino, Santa Lucia della Chiavica, alla Trinità dei Pellegrini, ai Monti, ed in altri luoghi.

Alla caserma di Sora i soldati tumultuarono, atterriti dal sospetto che fosse minata, ed il popolo inerme che trovavasi nelle vicinanze, venne preso a fucilate. Parecchi caddero vittime, fra le quali una donna.

Per la città cresceva l'agitazione; la polizia faceva arresti in massa, le porte erano barricate e munite d'artiglierie, i ponti sul Tevere minati, tutti i posti raddoppiati, pattuglie a piedi e a cavallo in moto giorno e notte; piazza Colonna, piazza del Popolo, il Campidoglio, il Pincio, il Quirinale, tutte le posizioni strategiche erano occupate da forti colonne di truppe d'ogni arma; la circolazione per la città difficile di giorno, pericolosissima di sera; Roma dall'imbrunire in poi deserta.

Era lo stato d'assedio di fatto: insidioso, mascherato, senza proclamazione, senza norme, più pericoloso e terribile di qualunque altro; ma era quello che giovava al governo pontificio per opprimere Roma nelle tenebre, e strombazzare fuori per la credula Europa che Roma era tranquilla e il governo sicuro.

Ma alla fine il crescente pericolo lo costrinse a levarsi la maschera.

Il 24 ottobre, a mezzogiorno, il generalo Zappi proclamò ufficialmente lo stato d'assedio per Roma e suo territorio, e il disarmo generale.

La proclamazione aveva la data in bianco, prova che da molto tempo era preparata, e che non si osava pubblicarla.

Era la prima sfida aperta dal governo papale al popolo romano, e ad essa fu data conveniente risposta.

Nella casa dei signori Ajani, vasto lanificio in Trastevere, alcuni animosi andavano faticosamente raccogliendo armi e munizioni, nell'intento di adoperarle per un nuovo tentativo che si ordiva.

In mezzo a questi preparativi, la polizia, avutone sentore, alle due antimeridiane del 25 si presentò con grande apparato di gendarmi e zuavi onde intimare la consegna delle armi e la resa.

Alla minacciosa intimazione, risposero coi revolvers, e li respinsero. Possedevano solo 28 fucili e 20 bombe Orsini, erano 50 contro un battaglione di zuavi, a cui tutta la guarnigione pontificia poteva andare da un istante all'altro in soccorso.

La lotta era disperata, e non restava loro altra certezza di vittoria che quella del martirio.

Lo accettarono, ma per quattro ore vendettero cara la loro vita, e seminarono di corpi nemici la contrada.

In alcune case vicine a quella Ajani il popolo tentava ogni mezzo onde portar aiuto ai difensori. In mancanza d'armi, rovesciava sul nemico quanto gli veniva alle mani: tegole, mattoni, masserizie. Alla fine il numero prevalse, e gli zuavi penetrarono nella casa.

Allora fu un duello corpo a corpo, uno contro dieci, e le donne davano l'esempio.

Una romana, Giuditta Tavani, con un bambino in braccio, e incinta da sei mesi, lottando eroicamente coi revolvers contro il nemico irrompente, ferita da molti colpi di baionetta, fu alla fine colpita da una palla nel mezzo del petto e spirò l'anima virile.

Nello stesso momento cadeva estinto presso di lei un figlio di 13 anni, e veniva trucidato il bambino.

La lotta durò accanita di stanza in stanza, di piano in piano, finché divenuta impossibile la resistenza, cominciò la strage.

Gli zuavi non accordarono quartiere ad alcuno: uomini, donne, fanciulli, quanti si trovavano, combattenti o inermi nella casa, furono passati a fil di baionetta.

Intanto prima di sera il popolo tentava accorrere da ogni parte in aiuto dei combattenti, ma tutte le vie e le comunicazioni erano chiuse da un fitto cordone di truppa; circa un migliaio di uomini circondavano il campo di quell'eroica difesa.

Basterebbe questo fatto, iniziato e compiuto dai soli Romani, per dimostrare che fra Roma e il papato sorse una barriera insormontabile; basterebbe il sangue degli sgozzati di casa Ajani per consacrare la Corte di Roma ad un odio immortale.

Nei successivi giorni, 26, 27, 28 e 29, continuarono su varii punti gli assalti alle pattuglie e gli scoppii di bombe Orsini. Gendarmi, zuavi, antiboini, erano pugnalati; il popolo, giunto alla disperazione, si vendicava come poteva.

Frattanto Garibaldi spingendosi verso Roma, riportava il 25 ottobre la splendida vittoria di Monte Rotondo, prendendo ai pontifici 200 prigionieri e tre cannoni. Nei giorni seguenti nuovi trionfi segnalano l'avanzarsi dei garibaldini che inseguono i papalini fin sotto le mura di Roma. Già Garibaldi dal casino di San Colombo in vista della città dice ai Romani di tenersi pronti alla riscossa quando il giorno 30 le truppe francesi comandate dal generale De Failly sbarcano a Civitavecchia, e alle ore 3 pom., di quel giorno medesimo entrano in Roma il 1.° e il 7.° di linea, seguiti poco dopo dal 29.° e da altri reggimenti.

Questo fatto doveva schiacciare quel resto di energia che ancora rimaneva ai Romani, però prima di ripiegare la vinta ma non domata bandiera della sacra rivolta, il popolo romano volle ancora dar segno di sé.

Gli pareva che il ritorno dei Francesi, codesto nuovo insulto ai patti giurati, al diritto, all'onore, codesta nuova violenza usata dalla nazione madre delle rivoluzioni alla più giusta delle rivoluzioni, codesto nuovo misfatto del cesarismo alleato del papato non dovesse passare senza una nuova protesta di sangue e che fosse giusto castigo alla vanità militare dei soldati della Marsigliese che il loro cammino fosse seminato di romani cadaveri caduti per la libertà sotto il piombo clericale.

Così un pugno di risoluti, tentando rinnovare alla villa Cecchini Mattei a Sant'Onofrio l'impresa fallita in Trastevere, attaccati da due compagnie di zuavi si difesero disperatamente fino a sera, finché divenuto vano il resistere accettarono la morte. Fu questo lo spettacolo cui assistette la Francia dell'89 reduce in Roma il 30 ottobre 1867.

Così la sola città di Roma dal 22 al 30 ottobre, per esprimere e suggellare il proprio voto, per sgombrare dalla mente degli illusi ogni idea di conciliazione, e di transazione, diede alla causa italiana oltre cinquanta morti, un centinajo di feriti, e ottocento carcerati.

La sanguinosa epopea doveva avere un triste eppur glorioso scioglimento a Mentana. Garibaldi, che dopo l'intervento francese aveva riconosciuta l'impossibilità d'impadronirsi di Rama, partiva da Monte Rotondo con 5000 uomini e cinque cannoni alle ore 12-1/ 2 del 3 novembre, e moveva verso Tivoli per volgersi al confine ed entrare nel regno. Oltrepassata di poco Mentana, la truppa garibaldina fu assalita da preponderanti forze di pontifici e resisté bravamente. Alle 2-1/ 2 la posizione era ancora di Garibaldi; fu allora che sopraggiunsero i Francesi, e portando nella bilancia tutto il peso dei loro fucili chassepots, decisero della giornata. I garibaldini furono astretti a ritirarsi innanzi a un numero più che doppio, lasciando sul terreno 250 caduti!

La storia ha registrati questi fatti, distribuendo l'onore e l'infamia a cui spetta.

Gaetano Sanvittore