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L'episodio di Vigna Matteini nella mancata insurrezione romana del 1867

La sera della domenica 22 ottobre 1867 avrebbe dovuto scoppiare in Roma una insurrezione popolare contro il Governo del Papa: essa doveva essere il pretesto per far intervenire Giuseppe Garibaldi che con i suoi volontari attendeva il momento propizio per unirsi ai rivoltosi dai suoi avamposti di Castel Giubileo sulla Via Salaria e di Casale de' Pazzi sulla Via Nomentana.

In un secondo tempo, le truppe regolari di Vittorio Emanuele II avrebbero occupato la Città con il duplice scopo di conquistarla al Regno d'Italia e di garantire l'incolumità e la libertà del Pontefice (Pio IX) privo in quel periodo della protezione francese a seguito della ben nota Convenzione di Settembre.

Il Governo Italiano, che in quel momento era presieduto da Urbano Rattazzi, mostrava di essere all'oscuro di tutta la faccenda ma la prospettiva del successivo intervento dell'Esercito la dice lunga sul come stavano effettivamente le cose.

L'incarico di organizzare la sollevazione era stato affidato personalmente dal Generale a Francesco Cucchi, per gli amici Checco, già dei Mille, già Cacciatore delle Alpi, poi capitano di artiglieria, uomo intelligente e coraggioso, che diverrà in seguito Deputato per il Collegio di Bergamo nel Parlamento di Roma Capitale.

Egli, munito da Garibaldi delle più ampie credenziali, era entrato, qualche mese prima, clandestino in città per riunire nelle sue mani la direzione del moto insurrezionale, ma, soprattutto, per sanare le incompatibilità e per "mettere d'accordo" i discordi uomini dei vari Comitati che agivano in Città.

Per dare aiuto a Checco scesero dal Nord e vennero a Roma sotto mentite spoglie parecchi ex garibaldini fra i quali: Giulio Adamoli, ingegnere, futuro Deputato e Sottosegretario agli Esteri; Giovanni Cadolini, ufficiale dei Bersaglieri, che diverrà Presidente della Camera dei Deputati; Felice Cavallotti, giornalista e scrittore; Enrico e Giovanni Cairoli, gli sfortunati Eroi della tragica spedizione; Giuseppe Guerzoni, giornalista, segretario di Depretis e di Garibaldi del quale fu anche Luogotenente e primo biografo e che insegnerà nelle Università di Palermo e di Padova.

Anche il fratello di Cucchi, Luigi, partecipo attivamente alle prime fasi dell'organizzazione, ma poi, arrestato dalla polizia papalina, dovette allontanarsi da Roma prima delle giornate cruciali per non compromettere tutti gli altri.

Secondo le direttive di Firenze, capitale del momento e sede del Governo, questa piccola Centrale operativa, nata dalla fusione di tutti i microorganismi preesistenti avrebbe dovuto dare ottimi e decisivi risultati ma in effetti non fu cosi anche se molti erano gli entusiasti, gli audaci ed i generosi. Tra questi Nino Costa, che in questa sua partecipazione dilapidò tutta l'eredita materna; 1'avvocato Giuseppe Leti, che dopo il '70 presiederà l'Associazione fra i Perseguitati ed i Processati Politici; il medico Alessandro Angelucci di Subiaco, chirurgo dell'Ospedale di S. Spirito in Sassia, che usava il nome di battaglia "Bruto"; Benedetto Raffo; ligure, ma da vari anni residente legalmente in Roma, ove esercitava un piccolo commercio; Domenico Acquatoni, impiegato camerale; Adolfo Sassi; Luigi Cicconetti, ecc. ecc.

Purtroppo però, la preesistente rivalità era tutt'altro che sopita, e la forzata riunificazione portò in effetti alla moltiplicazione di quella che doveva essere invece l'unica mente direttiva della cospirazione malgrado gli sforzi del bravo Checco.

A ciò si deve aggiungere il temperamento ingenuo e romantico caratteristico delle persone di quell'epoca a cui si deve accompagnare - da parte romana - una certa superficialità. e faciloneria probabilmente imputabili ad una assoluta mancanza di esperienza.

Era perciò inevitabile che il piano preparato dal Cucchi con tanta minuzia di particolari ma con la partecipazione di chi ha il timore di non giungere puntuale a1l'appuntamento, s'inceppasse: e non fu solo una questione di eccessiva sicurezza e di preparazione sommaria, ma anche la sfortuna e il tradimento ebbero la loro parte nell'impedire che le cose andassero per il verso voluto.

A conforto di queste opinioni possiamo citare il Guerzoni che, a pag. 516, cap. XII della sua "Vita di G. Garibaldi", dice: "se non che queste fila erano troppe perché potessero essere tutte forti del pari e qualcuna spezzandosi non producesse lo sfasciamento dell'intera trama", e Nino Costa che, a pag. 197 del suo "Quel che vidi e quel che intesi" , più concretamente dà corpo ai suoi sospetti sulla presenza del delatore.

Il giorno fissato per l'inizio delle operazioni comincio all'insegna di due vistosi contrattempi: durante la notte erano state soppresse le comunicazioni fluviali ed erano state chiuse le principali Porte della cinta muraria che racchiudeva la città.

Di conseguenza, il vaporetto di cui dovevano impadronirsi gli uomini della spedizione Cairoli (per trasportare le armi destinate ai rivoltosi e sbarcarle a Porto Ripetta dove erano ansiosamente attese) non si mosse, ed essi dovettero prendere terra vicino alla sorgente dell'Acqua Acetosa e rifugiarsi poi nella vigna Glori, mentre il gruppo di patrioti (che avrebbero dovuto portarsi a Vigna Matteini, prendere le armi ivi nascoste e distribuirle ai rivoltosi) giunti a Porta S. Paolo persero del tempo prezioso: per poter transitare dovettero - dopo aver neutralizzato i guardiani - abbattere le opere murarie! Quando finalmente irruppero sulla via Ostiense caddero prigionieri del drappello degli zuavi comandati dal Cap. Eligi che, nel frattempo, aveva catturato parte degli occupanti della vigna e tutte le armi in essa nascoste, dopo aver sostenuto un vivace conflitto a fuoco nel quale era rimasto ferito il giovane Memmo Acquaroni.

Senza le armi, senza il rinforzo di nuovi volontari, tutta la macchinazione perse la sua efficacia: l'assalto al Campidoglio non riuscì malgrado fosse guidato da Cucchi in persona; quello di piazza Colonna si può dire quasi non ebbe luogo; si ebbero altri piccoli scontri isolati che rimasero senza seguito e nemmeno riuscirono a collegarsi tra di loro mentre l'attentato alla Caserma Serristori non arreco le conseguenze calcolate in quanto la maggior parte dei soldati ne era uscita poco prima appunto per l'operazione alla vigna.

Romeo Matteini a 16 anni in divisa da collegiale a Parigi (1858)

A questo punto fu evidente che era stato più il fumo che l'arrosto: Checco, Guerzoni e gli altri scamparono fortunosamente alla cattura in rifugi precari mentre gli altri, vista la piega che avevano preso gli avvenimenti pensarono bene di "rifugiarsi" a cena da Bedau, la trattoria di via della Croce, loro punto di ritrovo abituale.

Di tutti questi episodi esiste una letteratura vastissima. Nelle numerose pubblicazioni che seguirono, inerenti ai fatti di quelle giornate, ognuno dei protagonisti ha ritenuto, naturalmente con diritto, di spiegare il perché e il come si svolsero i fatti e, seppure fra le tante versioni vi sia qualche discordanza sui tempi, sugli orari, sul numero degli intervenuti (a seconda che chi scrive parteggi per il Papa o per il Re) pur sempre il lettore riesce a farsi un'idea di quel che avvenne, non avvenne o non poté avvenire in quella famosa notte, nei giorni che seguirono e, soprattutto, nei giorni che la precedettero.

In tutti questi scritti, pero, Vigna Matteini fa la figura della famosa Araba Fenice la quale, come é noto, "che vi sia ognun lo dice ove sia nessun lo sa".

E una grande zona d'ombra, un silenzio quasi assoluto, soprattutto nei precedenti che 1'avevano designata a far parte di quel piccolo frammento di storia. Tutti la nominano, tutti parlano delle armi che vi erano nascoste, ma nessuno ha mai spiegato di chi e dove fosse, del come e perché quelle armi fossero andate a finire proprio li.

Ora, a Roma c'e un detto che dice: "l'importuno vince l'avaro", per cui, calatami decisamente nei panni dell'importuno ed attaccate con insistenze le "avare" carte, sfruttando al massimo i pallidi e confusi ricordi tramandati dagli ultimi anziani di famiglia, ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di colmare le lacune e di ricostruire i vuoti, per poter portare a conoscenza di quanti sono appassionati alla storia di questa nostra tanto amata Città, i veri connotati di un episodio di quella mancata occasione di anticipate 1'avvento di Roma Capitale che a me pare sia stato sempre considerate, a torto, marginale.

Per prima cosa ho cercato di analizzare, attentamente, le pubblicazioni esistenti ed ho scoperto in quattro Autori altrettante indicazioni interessantissime pur se laconiche.

Un fianco del tinello di Vigna Matteini ove si presume che Domenico Acquaroni, rispondendo al fuoco degli zuavi, venisse ferito: proprio sulla cima della scaletta.

Il primo è Paolo Dalla Torre che, nel suo libro "L'Anno di Mentana" parlando dei processi seguiti all'infelice tentativo, a pag. 352 cita "il Matteini Romeo, contumace", unico fra tutti ad indicare con certezza chi, fra i componenti della Famiglia alla quale apparteneva il fondo, fosse stato coinvolto nei fatti.

Il secondo è Nicola Roncalli. Nel secondo volume del suo Diario, al giorno 28 del mese di ottobre 1867, si trova scritto:

"Matteini, il computista del Principe Pallavicino (il titolo di Principe Pallavicini e un maggiorasco di secondogenitura dei Principi Rospigliosi, n.d.a.) ha una vigna vicino alla Porta di S. Paolo. ll figlio di lui, Romeo, diede luogo a sospettare alla Polizia che cola vi fosse un deposito d'armi ".

A parte l'infelice frase "diede luogo a sospettare alla Polizia", che non rende in maniera esatta la partecipazione che il ragazzo ebbe con il fatto, noi qui, acquistiamo la certezza che il proprietario era il di lui padre, Michele Matteini.

Il terzo e l'avvocato Giuseppe Leti, già presentato, testimone diretto e protagonista egli stesso dei fatti accaduti. Una fonte, quindi, delle più attendibili seppure, come vedremo, alquanto sibillina.

Nel suo libro "Roma e lo Stato Pontificio dal 1849 al 1870" vol. 2° pag. 288, egli scrive testualmente: "Francesco Cucchi affidò a Benedetto Raffo l'incarico di ripulire le armi e rifare le munizioni ed il Raffo ottenne da un certo "Luigi Matteini" all'uopo, l'uso di una cantina in una vigna di costui proprietà, sita a sinistra del Ponticello di S. Paolo ".

Da queste pagine la matassa ne esce alquanto ingarbugliata: le armi si sa che erano quelle che, partite da Follonica e giunte su di un veliero a Fiumicino, a seguito di varie vicissitudini erano state nascoste in riva al fiume incontro ai Prati di Tor di Valle, ma il nome "Luigi Matteini" non corrisponde affatto.

Fu Romeo Matteini sia secondo il Dalla Torre che il Roncalli a venire incriminato e la conferma viene proprio dalla Relazione Fiscale del Processo Acquaroni tenuto alla Sacra Consulta nel 1869 nella quale a pag. 216 è scritto: "In quanto ai proprietari della vigna si ebbero nello sviluppo degli atti sufficienti indizi per chiamare unicamente responsabile di connivenza coi faziosi Romeo Matteini e fu contro di lui rilasciato l'ordine di arresto...".

E allora?

Furono vaghe e confuse reminiscenze ad indirizzarmi sulla giusta strada. Mi avevano raccontato che "zio Serafino" soleva narrare di certe scorribande, in carrozze piene di armi, da lui effettuate per rifornire i rivoltosi: una pronta ricerca nel libro dei battesimi di S. Tommaso in Parione portò alla scoperta che "Luigi" (Aloysius) era il suo secondo nome conferitogli in ossequio al suo Padrino.

Questa scoperta permette di individuare in lui quel Luigi Matteini citato dal Leti confermando, altresì, la sua partecipazione a fianco del fratello.

Un particolare interessante che non va assolutamente taciuto è questo: la carrozza di cui parlava il nostro prozio era di Casa Pallavicini, con tanto di cocchiere e di stemma, il ché

non è nemmeno - poi - una cosa molto strana: si sa che il Principe Pallavicini fu poi il Presidente della Giunta Provvisoria di Governo installata a Roma lo stesso settembre del 1870.

L'ultimo scrittore che si interessa della nostra vigna e il grande studioso della campagna romana Giuseppe Tommassetti.

Nella splendida edizione della sua opera "La Campagna Romana - Antica Medioevale e Moderna", edita dal Banco di Roma per iniziativa di Italia Nostra, nel 5° volume completamente dedicato alle Vie Laurentina ed Ostiense ho rinvenuto una notiziola non del tutto esatta e non del tutto sbagliata:

alla pagina 67 si parla di Vigna Matteini che fu teatro di combattimenti nella sfortunata insurrezione del 1867 citando anche un articolo di Francesco Cucchi sul Giornale d'Italia del 3 ottobre 1915.

Ma la collocazione non è esatta.

Vi si dice, infatti, che essa si trovava subito fuori la Porta S. Paolo e, precisamente, all'altezza del cavalcavia ferroviario.

Ebbene, si tratta di altra vigna, sempre di proprietà di Michele Matteini, chiamata del Travicello (dal nome del vicolo con cui confinava) mentre quella di cui ci stiamo occupando era quella a sinistra del Ponticello di S. Paolo, due miglia romane (circa tre chilometri) più lontano.

Chiarite così le scarne notizie della letteratura ufficiale cercheremo ora di fare una conoscenza più approfondita di quel "Matteini computista del Principe Pallavicino" che al momento dei fatti era proprietario della piccola vigna.

Era nato il 27 luglio del 1808 al n. 60 di via della Consolazione, penultimo dei sette figli di Gaetano, anch'egli occupato nella Amministrazione dei Principi Rospigliosi al pari del nonno Giovanni e del bisnonno Sebastiano, la cui apparizione in Roma al seguito della nobile Famiglia risale all'ultimo quarto del diciottesimo secolo secondo i registri delle anime della Parrocchia di S. Maria in Publicolis, ma che i Matteini appartenessero alla corte di Pistoia dei Rospigliosi lo dimostra la scoperta, nell'omonimo fondo alla Biblioteca Vaticana, di una raccolta di poesie del Dottor Giosuè Matteini stampate in quella citta nel 1788.

Nel 1856, Michele si trasferì in via della Consulta n. 2 in una casetta di proprietà dei suoi illustri datori di lavoro e nella quale risiedé ininterrottamente fino al giorno della sua morte avvenuta il 12 febbraio 1892. A seguito della apertura di via Nazionale l'edificio fu demolito e sostituito con il grande palazzo d'angolo il cui portone è contraddistinto con il n. 1/A.

Nel 1867 la famiglia era composta da lui, dalla moglie Carolina Vetralli più giovane di lui di ben 17 anni e che sarebbe mancata il 20 ottobre 1870, e da Cinque dei suoi sei figli: Giulia, la primogenita, Serafino il secondo dei maschi, che sarebbe divenuto ingegnere al futuro Comune di Roma Italiana, e poi Rosa, Guido e Maria la più piccina. Romeo, il maggiore, era sposato e viveva altrove.

Michele era un uomo burbero ed autoritario, ma se questo in famiglia poteva essere spiacevole, sul lavoro era una qualità che andava aggiunta alle sue notevoli capacita di amministratore. A venti anni gli avevano affidato l'intera responsabilità delle Tenute di. Maccarese e di Casale delle Pulci; via via, con il progredire del tempo, dell'età e dell'esperienza le sue incombenze si erano estese anche ai possedimenti in Toscana e nelle Marche. Era divenuto il braccio destro, l'uomo di fiducia del Principe Giulio Cesare prima e poi del figlio Clemente poi, i quali lo tenevano in ottima considerazione, ne accettavano i consigli e gli lasciavano anche un certo spazio di iniziativa personale

Michele Matteini, proprietario della vigna

come fanno fede le numerose lettere giacenti nell'omonimo Fondo presso l'Archivio Segreto Vaticano. Ivi si trova anche uno strumento di enfiteusi stipulato tra Don Clemente ed il suo Computista, per gli atti del Notaio Delfini in data 10 luglio 1866, nel quale è scritto: "volendo anche in questa circostanza dare un compenso ali straordinari servigi cui egli si è di buon animo prestato (il Matteini) ".

Con queste premesse, noi possiamo solo immaginare quanto fosse stato increscioso per lui, per la posizione che egli occupava, quello che accadde la notte del 22 ottobre. Pensate a quest'uomo rigido, tutto d'un pezzo, alla sua devozione al Potere temporale che era poi un riflesso del1'attaccamento e dell'affezione che egli provava per il suo Principe, vedersi trascinato per colpa di quel suo rampollo in un turbine di reati che andavano dalla cospirazione alla rivolta, dallo scontro armato al tentativo di rovesciamento dello Stato, alla connivenza addirittura con Garibaldi e con Vittorio Emanuele II!

Di sicuro gli fu facile dimostrare la sua estraneità ai fatti come dimostra il passo della Relazione Fiscale che abbiamo più addietro citato circa le responsabilità dei proprietari della vigna; ma dobbiamo pensare che, certamente, il colpo fu grosso, anche per un uomo forte e autoritario quale egli era.

Per tutta la vita a venire, sino alle sue volontà estreme, fu chiaro che i suoi rapporti con i figli maschi non furono più gli stessi di prima.

E veniamo adesso a questi ragazzi, queste due figure di giovani patrioti, oscuri e generosi, al pari di molti altri che vissero quelle giornate di passione, e sui quali per oltre un secolo è scesa la nera coltre della dimenticanza e dell'oblio.

Il maggiore, Romeo, era nato il 2 settembre 1842 in via del Corallo n. 25. Era di statura leggermente superiore alla media, snello - solo negli ultimi anni di vita arrotondo un poco la figura - di un biondo tendente al rossiccio, occhi fra il celeste ed il verde e la salute delicata come quasi tutti i suoi fratelli i quali ad eccezione di Giulia e Serafino, che riuscirono a superare i settanta, morirono più o meno intorno alla trentina.

Dai registri della Parrocchia di SS. Quirico e Giulitta sita alle spalle del Foro di Augusto in fondo alla via della Madonna dei Monti, negli stati delle anime relativi agli anni 1857-58 e 1858-59, risulta che egli e suo fratello erano assenti da Roma; infatti, Romeo, che a quell'epoca aveva dai 15 ai 17 anni si trovava in Francia nel Collegio di Passy: esiste una sua fotografia in divisa quasi militare datata Parigi 3 aprile 1858.

In quegli stessi anni suo fratello Serafino, che era nato nella stessa casa il 15 maggio 1848 studiava nel seminario dei Gesuiti di Mondragone.

Forse nella mente di Michele le vie per i due ragazzi erano già tracciate: la carriera militare per uno e quella religiosa per l'altro. Le cose, però, non andarono cosi: già da allora quei benedetti figlioli la pensavano molto diversamente dal loro padre, principalmente Romeo al quale la frizzante "aria francese" aveva trasmesso irrinunciabili fermenti.

Intelligente e sveglio, molto portato per la contabilità e l'amministrazione, parlava perfettamente il francese al punto di poterci scrivere addirittura un libro, manco a dirlo una "Tenue des livres en partie double par Romeo Matteini" lavoro che lo terrà occupato durante gli anni dell'esilio.

Si era sposato 24enne il 29 aprile 1866 nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina con Giuditta Rinaldini. La sposa era figlia di Alessandro che dai registri parrocchiali risulta "impiegato" mentre in casa lo si definiva "accompagnator di cose antiche" (evidentemente faceva il restauratore a tempo perso) ed era sorella di Achille Rinaldini, Canonico alla Cappella Borghesiana di S. Maria Maggiore, professore di Teologia e Filosofia al Collegio Urbano di Propaganda che verrà consacrato Vescovo di Cirene il 16 marzo del 1879.

Il 12 aprile di quel famigerato 1867 era nata la loro prima figlia Agnese, che, allo scatenarsi della bufera contava, quindi solo sei mesi.

Che anche Romeo lavorasse in Casa Rospigliosi, è provato dalle Filze dell'Amministrazione Centrale, che sarebbero poi, in parole povere, i conti tenuti dal Maestro di Casa (certo Pietro Carboni che, tra l'altro, era stato suo testimone nel contratto di nozze) qui tra un pagamento e l'altro dei vari fornitori figura il suo stipendio di "alunno computista".

Sposandosi, il ragazzo, aveva lasciato la casa paterna ed era andato a vivere con il suocero, non nello stesso appartamento ma sullo stesso pianerottolo al palazzo contraddistinto con il n.35 in via in Lucina, edificio in seguito demolito.

Stabilire come e quando i due fratelli siano entrati in contatto con il movimento clandestino non è possibile e neppure quale dei due abbia convinto 1'altro a seguire il suo esempio; ricordando il particolare della carrozza, non sarebbe azzardato attribuire al Principe Pallavicini un ruolo determinante.

In assenza di documenti o di dichiarazioni è palese che noi possiamo fare solo delle supposizioni che, peraltro, sono suffragate da singolari notevoli coincidenze. Vediamole.

Iniziamo dal portone di via della Croce, contraddistinto con il n. 81; nel cortile interno in cui si trovava il famoso ristorante "Bedau" - abitavano Domenico Acquaroni, detto Memmo, o sua madre la signora Teresa. Al portone dirimpetto, il n, 14, abitava Amalia Vetralli, sorella di Carolina - madre di Romeo - sposata a tale Pietro Bordini, sarto, testimone anche lui nel contratto di nozze del nipote. Questa vicinanza favorisce 1'ipotesi che vi fosse una conoscenza fra la zia di Romeo, la madre di Memmo o magari la famiglia stessa del trattore: a quei tempi, si sa, quanto fossero più sentite e praticate le relazioni di buon vicinato tra inquilini dello stesso palazzo o limitrofi o dirimpettai.

Altro particolare importante e la libreria di piazza di Spagna, notoriamente punto d'incontro dei patrioti romani al pari del già citato "Bedau". Nel libro di Adolfo Sassi "Notizie e documenti sull'insurrezione romana del 1867", in appendice, é riportata una lettera che Adriano Lemmi inviò a Francesco Cucchi il 6 ottobre del '67 nella quale è scritto testualmente "...il libraio Giulio Posi della liberaria già Rinaldini di piazza di Spagna...". Questo ci fa pensare che questo precedente proprietario possa essere stato un fratello della nostra Giuditta; purtroppo i registri delle anime della Parrocchia non danno la professione dei figli maschi di Alessandro Rinaldini.

Riguardo al Raffo possiamo solo dire - avendolo desunto dai relativi registri parrocchiali - che era a Roma dal 1859, che aveva una bottega di lavagnaro in via di S. Chiara n. 25 che la gestiva in società con il compaesano Brignardelli Stefano, presso il quale abitava, in via Arco della Ciambella n. 22, int. 3 e che era " libero" cioè privo di legami familiari. Può darsi che Romeo o addirittura Michele avessero avuto occasione di avvalersi del suo piccolo commercio: difatti le lavagne nell'ottocento erano molto usate come materiale di protezione per cornicioni, ballatoi, per pavimentare balconi; la manutenzione di palazzo Rospigliosi potrebbe averne avuto bisogno.

Proseguendo nella nostra piccola indagine dobbiamo ora prendere in considerazione una circostanza sulla quale tutti gli autori sono d'accordo: la presenza di Giuseppe Guerzoni nella vigna la sera del 22 ottobre; lui stesso, alla pag. 516 del suo libro, la conferma con queste parole: "...però il Guerzoni......sorpreso quasi tosto nella Villa Matteini e assalito da una compagnia di zuavi... era costretto, dopo breve lotta ad abbandonare le armi agli aggressori".

Rileggiamo adesso la deposizione giudiziale del cocchiere Datini che era dipendente della scuderia presso la quale Romeo era solito noleggiare la carrozza per le sue necessità. (Era una consuetudine delle famiglie benestanti di allora quella di avere la carrozza a mesata, n.d.a.).

Egli afferma che domenica mattina 20 ottobre gli fu commissionato di accompagnare la famigliola Matteini alla vigna ove consumò il pranzo che fu passato anche a lui, che tornarono a Roma nel primo pomeriggio, che al momento di scendere il giovane Romeo gli comandò di tornare dopo circa un'ora, che il Matteini si ripresentò non più vestito da borghese come dianzi ma in tenuta completa da cacciatore in fustagno con relativi stivali, che si fece accompagnare a piazza Barberini dove raccolse una persona "avvolta in un mantellaccio e con il cappello completamente calato sugli occhi" per cui non poté minimamente individuare chi fosse, e che infine, in compagnia di questo sconosciuto - facendo fare alla vettura un lungo giro vizioso "quasi volesse far perdere a qualcuno le tracce dei propri passi" - si fece riportare sino alla vigna.

Confrontiamo ora queste ultime due circostanze: dal libro del Guerzoni e dalla deposizione del cocchiere esce la Certezza che il personaggio misterioso salito in carrozza a piazza Barberini altri non è che il Guerzoni stesso e due sono gli indizi che incoraggiano questa tesi: primo, il fatto che essendo straniero l'incognito non avrebbe potuto andare, da solo, e a piedi, fino alla vigna della quale sicuramente non conosceva l'ubicazione; secondo: la disperata resistenza dell'Acquaroni, il suo ricorso alle armi che acquista, per la presenza di tanto personaggio (o di tanti personaggi se fossero stati presenti - come sembra - anche il Cucchi ed altri), il significato di una estrema decisione presa per dare a lui (o a loro) il tempo di fuggire tenendo impegnati per alcun tempo i soldati che, altrimenti, avrebbero potuto fare subito irruzione nella casa e catturarlo (o catturarli).

Naturalmente, Romeo Matteini, nella sua deposizione stragiudiziale, nel già citato Processo Crevatti e Monaco, resa all'Autorità Inquirente il giorno 17 del novembre successivo si guardo bene dal raccontare la sua complicità con gli insorti, la fuga con i compagni fino alla partecipazione alla battaglia di Mentana e l'amaro e chissà quanto avventuroso ritorna a casa dopo la sconfitta. Narrò in sua vece una ingenua e sconclusionata storia di minacce e costrizioni sfociata poi nel brutale sequestro della sua persona, nella speranza di farla franca e di convincere il Giudice sulla sua estraneità al fatto. Fanno sorridere le puerili bugie e le inconsistenti giustificazioni da lui addotte in quella circostanza e, manco a dirlo, non convinsero affatto il Magistrato il quale lo ritenne ugualmente complice e responsabile ed invio più volte i gendarmi a casa sua per farlo arrestare.

Ma questa volta il giovane fu più furbo e fuggì.

Che abbia trovato ricetto anche in qualche altra località non si può escludere, però il libro di cui ho parlato a proposito della sua competenza in ordine alla contabilità ed amministrazione porta scritto sul frontespizio "Pontecorvo 1868" e sotto la parola "Fine" la data "Pontecorvo 31 janvier 1869 f.to R. Matteini". È scritto completamente a mano, ogni pagina e numerata ed artisticamente riquadrata, i capoversi dei capitoli sono ornati con disegni di bell'effetto, ricco di tavole e di prontuari.

Una lettera del Montecchi (sempre del libro di Adolfo Sassi) ci rivela l'esistenza di un responsabile del Centro di Insurrezione nativo o proveniente da quella cittadina: si tratta di Aristide Salvatori

Romeo Matteini a 30 anni (1871)

che potrebbe benissimo aver aiutato il Nostro a rifugiarsi colà.

La sua latitanza lo tenne lontano da due giudizi: uno contro quel Domenico Acquaroni per "promossa e sostenuta insurrezione" che riuscì ad arrivare alla sentenza (emessa il 18 maggio 1869) nella quale si ordina che: "si insista per l'arresto del contumace Romeo Matteini..."; 1'altro: quello contro Domenico Crevatti e Cesare Monaco che però non riuscì a superare la fase istruttoria per i sopraggiunti eventi del 1870.

Sicuramente il giovane non attese la "Breccia" per rientrare in famiglia: già nell'estate del '70 il pericolo di essere arrestato non incombeva più e poi c'era la salute della Madre che impensieriva assai.

Il Governo Pontificio aveva cose ben più importanti da fare; come denuncia il Roncalli nel suo Diario al giorno 17 settembre del '70: "nel cortile della Panetteria al Quirinale, nella scorsa settimana furono incendiati i processi politici che si custodivano in un archivio di Palazzo. Nel giorno 16 corrente nella Polizia si incendiarono altri processi e carte compromettenti".

Si spiegano cosi i fogli mancanti ed i fascicoli incompleti; mancano verbali di interrogatori o di deposizioni extragiudiziali, nonché i rapporti della polizia a carico degli inquisiti.

Forse in essi avremmo potuto trovare molte delle tessere che mancano al nostro mosaico che, in forza di ciò, riesce a dare un'immagine dei fatti appena abbozzata se non addirittura incompleta. Forse se il povero ragazzo fosse vissuto più a lungo, avrebbe sentito anche lui il desiderio di chiarire minuziosamente e dettagliatamente la sua partecipazione a quell'impresa eroica e sfortunata; purtroppo, egli invece ritornò segnato nel fisico dalle paure e dai disagi passati: il suo cuore non lo sosteneva più.

Il 18 febbraio 1875, all'ora quinta, in età di anni 30 e mesi 5 Romeo Matteini moriva nella camera accanto a quella in cui stava nascendo il suo ultimo figlio; fecero appena in tempo a farglielo conoscere e lo chiamarono Romeo in sua memoria.

Nel registro dei defunti della Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina si legge: "fulmineo feral morbo"; dobbiamo pensare ad un'ultima e fortissima crisi cardiaca, forse un infarto.

Il vecchio Michele non solo sopravvisse per altri diciannove anni al suo infelice figliolo ma vide, altresì, perire tre dei sei nipotini avuti da lui: Agnese ed Edoardo mancati durante la latitanza del padre e Giulio nel 1890 a soli venti anni.

Solo la quartogenita Carolina e Romeo junior giunsero a vivere i tumultuosi tempi del ventesimo secolo.

Nel 1922 morì anche Serafino all'età di 74 anni. Era riuscito a rimanere fuori dalle persecuzioni seguite ai fatti del '67 molto per fortuna e più ancora per il silenzio di tanti primo fra tutti il fratello. Era pensionato del Comune di Roma nell'ufficio tecnico del quale aveva prestato servizio per vari decenni. Al petto gli misero la Medaglia al merito che "ROMA RIVENDICATA AI SUOI LIBERATORI" gli aveva concesso per aver partecipato con tutto l'ardore dei suoi diciannove anni allo sfortunato tentativo.

Depositaria e testimone degli avvenimenti trascorsi rimase dunque la povera Giuditta la quale, da brava donna di casa dell'ottocento, considerava la politica alla stessa stregua di una belva feroce - e ne aveva ben ragione - poiché quella belva le aveva divorato un marito giovanissimo. Tacque, e quando morì nel gennaio del 1925, portò con se nella tomba tutti i suoi ricordi, fatta eccezione di qualche piccola confidenza, qualche sbiadito ricordo (che, tramandato oralmente tra i componenti della famiglia, ha potuto arricchire questo racconto) e quella bronzea medaglia che ad ogni sguardo le rinnovava sempre un acuto dolore.

A questo punto, pero, l'oggetto più importante del nostro discorso, per il quale ho speso sin qui le mie parole a mo' di prologo e di introduzione, sarà la storica vigna che, purtroppo, alla morte del "computista del Principe" andò divisa fra i vari eredi e successivamente venduta.

Quando Michele Matteini la comprò, per gli atti del notaio Campagna, dai Fratclli Graspelli era il 16 settembre 1843 e quel suo figliolo, futuro rivoluzionario, aveva da poco compiuto un anno mentre tutti gli altri dovevano ancora nascere.

Il perito agrimensore Pietro Belli, al quale era stata richiesta, stese una perizia onde stabilirne un prezzo equo alla vendita. Da essa risulta che era situata sulla via Ostiense a circa due miglia romane fuori la Porta di S. Paolo (un miglio romano = 1.300,00 metri) subito a sinistra dello spiazzo esistente appena passato il Ponticello detto di S. Paolo, ma anticamente chiamato Ponte de Tufo per via delle sue remotissime origini.

Essa confinava a levante con la vigna dei Fratelli De Santis, a ponente con il valco di S. Paolo nella sua forma maestra, a scirocco con il vicolo delle Statue ed a tramontana colle vigne delli Rev. PP. Monaci Benedettini. La sua superficie ammontava a pezze 22, quarte 3, ordini 17, corrispondenti a tavole cinquali 60,35 che, in misure moderne, corrispondono a poco più di sei ettari dato che una tavola misurava circa mille metri quadrati.

Disponeva di due piccoli edifici: un tinello e la casetta del vignaiolo con annessa stalla, aveva il cancello d'ingresso munito di pilastri ed una stradina alberata, in dolce salita che portava agli edifici: difatti la vigna era situata in "posizione torreggiante" dalla quale era possibile dominare l'Ostiense fino alla Basilica ed oltre. Era coltivata per due terzi a vite ed era fornita di orto casalino e di piccolo canneto.

Esiste una piccola planimetria, allegata all'istanza di trasporto 16457 del 21 ottobre 1853 relativa alla vendita di piccolissime superfici fatte da Michele Matteini ai sunnominati F.lli De Santis, molto probabilmente per una rettifica di confini, che ne illustra chiaramente la forma, i confini e la collocazione degli edifici.

Nel 1924 l'lstituto Geografico Militare pubblicò una bella carta di Roma e suburbio in scala 1:5000 dove la nostra vigna è chiaramente individuabile. Lo stesso dicasi per la carta, sempre dell'I.G.M., del 1949.

Certo la descrizione dei confini che abbiamo dato prima non risulta chiaramente comprensibile oggi, perché la zona ha subito vistose trasformazioni: basta pensare che la, dove un tempo si trovavano solo orti, vigneti e sparsi casolari, si estende oggi, dalle vecchie mura fino al Fosso delle Tre Fontane, il moderno e popoloso quartiere Ostiense con una superficie di 7.123 chilometri quadrati ed una popolazione di 101.313 abitanti.

Come ritrovare i vecchi toponimi nelle odierne denominazioni stradali?

Cerchiamo innanzitutto di identificare il luogo dello scomparso Ponticello di S. Paolo caposaldo insostituibile per l'identificazione del vecchio ambiente nel nuovo.

Esso si trovava, come abbiamo detto, a due miglia circa dalla Porta e scavalcava la marrana detta di Grottaperfetta dalla zona di provenienza. Subito dopo il ponte l'Ostiense si allargava e formava uno spiazzo subito a sinistra del quale si dipartiva il vicolo delle Statue che con un'ampia curva angolata si allontanava nei campi sino alle non lontane cave di pozzolana; sempre a sinistra ma un po' più avanti iniziava la via Laurentina.

A destra la marrana proseguiva la sua strada fino a gettarsi nel Tevere.

Davanti, in fondo allo slargo, la via Ostiense riprendeva il suo cammino verso il mare.

Una piccola casa raccordava le due vie Ostiene e Laurentina: era l'Osteria del Ponticello.

Oggi tutto questo è sparito: la Marrana e stata trasformata in una grossa canalizzazione sotterranea che non segue ovviamente più l'antico tracciato; il Ponticello è scomparso con l'allargamento e l'interramento della strada. L'unico elemento sopravvissuto al rustico quadretto che abbiamo appena ricordato è 1'Osteria; il piccolo edificio ha resistito a tanto sconquasso anche se trasformato in: "Il bar del Ponticello". Da lui ripartiamo alla ricerca della vecchia vigna.

Rechiamoci dunque li e voltiamogli le spalle.

Alla nostra destra abbiamo l'inizio della via Laurentina sovrastata dal ponte della ferrovia Roma-Ostia. Se noi risaliamo qualche decina di metri parallelamente alla scarpata del viadotto ferroviario, vedremo un arco murato nella massicciata, ebbene quello era il punto in cui scorreva la marrana prima del suo interramento.

Torniamo indietro e imbocchiamo, subito a sinistra la via Gaspare Gozzi, una strada che si svolge parallela all'Ostiense ma dall'altra parte della strada ferrata: arriviamo all'altezza dell'arco murato, ora le vecchie acque non passano più di qui, ma una volta, all'incirca in questo punto esse formavano la famosa "forma maestra" indicata nell'antica perizia.

Ora oltrepassiamo il grande isolato che ha la fronte su via G. Gozzi ed il fianco sinistro sulla via Laurentina e raggiungiamo il suo fianco destro che prospetta su di una larga Strada, che solo di recente e stata intitolata a Silvio D'Amico, il noto critico e scrittore di teatro, ma che fino a pochi anni fa si chiamava ancora "Via delle Statue": ecco trasformato in una ampia e moderna arteria il nostro vecchio "Vicolo delle Statue"; certo esso non segue più alla perfezione il vecchio tracciato, la sua carreggiata é stara molto allargata ma sotto il suo asfalto, specialmente dalla parte sinistra si trova ancora la terra della nostra vecchia vigna; essa ha mantenuto anche la stessa curva ad angolo ottuso e soprattutto lo stesso orientamento a sud-est, lo "scirocco" appunto, citato nell'antico strumento del perito Pietro Belli.

Ora percorreremo la via verso la piazza omonima, voltiamo a sinistra per la via Regina degli Apostoli, poi imbocchiamo, sempre sulla sinistra, la via Antonino Pio che, alla fine, ci riporterà sulla via Gaspare Gozzi: molto approssimativamente avremo percorso il perimetro di "Vigna Matteini", sparita, sepolta sotto montagne di cemento armato. `

Dov'era il sentiero alberato che si percorreva in carrozza per giungere al tinello in cima alla lieve salita, sotto l'ondeggiare delle chiome degli alberi, tra il cinguettio degli uccelli ed il profumo dei fiori e la fragranza della mentuccia, sono cresciuti enormi alveari fitti di finestre, serrande e balconcini che opprimono quella terra ove risuonarono i passi di giovani ardimentosi, che occupano quell'aria che risuono del rombo dei fucili e delle grida di dolore.

Oggi i rumori orribili del traffico annullano perfino gli sforzi della mente che cerca di ricostruire quegli avvenimenti lontani che tanta importanza hanno avuto nella storia della nostra Città, che sono costati lacrime, sangue e perfino l'offerta della vita nel tentativo sfortunato e patetico insieme di ridare alla Città quel posto nello Stato e nella Storia che le competeva di diritto.

Vittoria Novara Matteini